lunedì 5 gennaio 2009

Il pane ce lo mettiamo noi


Attraversare il Ponte Gobbo di Bobbio all’alba per salire in alta Val Trebbia fa un certo effetto. La leggenda dice che sia stato costruito dal diavolo che in cambio comprò l’anima dell’oste che aveva una trattoria, tuttora esistente, al di là del fiume.
Ma la sensazione più forte è il pensiero che su queste “gobbe” sono passati nei secoli migliaia di pellegrini, i transiti commerciali tra il mare di Genova e le terre padane, i soldati di Annibale. Perché qui siamo nel cuore del passaggio di Annibale e della battaglia sulla Trebbia, nel 213 a.c.
Da qui raggiungiamo la Val Boreca, ai confini estremi della provincia piacentina, praticamente si sente già il profumo e gli umori del Mar Ligure, dove le tracce di Annibale si avvertono ovunque, a cominciare dai nomi dei paesi: Zerba (Djerba), Tartaro (Cartago), al Monte Penice il nome latino dei Cartaginesi: "phoenices" ossia fenici.
E’ un vero e proprio viaggio quello che ci porta, alle prime luci del giorno, a Cerreto per incontrare un fornaio di cui abbiamo sentito ogni sorta di lode. Arriviamo a casa sua, in un paese dove il silenzio è l’elemento costante, visto che ci vivono esattamente quindici persone, di cui un terzo compongono la famiglia di Ferruccio Arrigon, milanese, fornaio, con moglie e tre figlie.
“Un caffè?”, ci accoglie Ferruccio mentre comincia ad impastare farina nel suo forno, ricavato da una vecchissima casa in sassi e beole del Seicento, come la maggior parte degli edifici di questo e degli altri paesi della Val Boreca, ormai tutti abbandonati.
Il forno è collocato in una stanza di venti metri quadrati, un microcosmo di magia e profumi in cui Ferruccio regna incontrastato. L’ingresso è da una porticina, su cui campeggia la scritta laboratorio, in cui è d’obbligo piegarsi per entrare, a conferma di come i contadini un tempo fossero di bassa statura; dentro, alle pareti, calendari indiani e una foto in bianco e nero che raffigura un indiano.
“E’ stato il mio maestro spirituale quando, negli anni ’70, sono andato per diversi mesi in India – racconta Ferruccio – Al ritorno, dopo aver lavorato nell’hinterland milanese per alcuni anni, con mia moglie abbiamo deciso di venire a vivere quassù, aprendo un ristoro agrituristico dove, tra i primi, abbiamo intrapreso la strada del biologico. Solo dopo è venuta questa passione per il pane.”
Intanto che Ferruccio ci parla della sua esperienza indiana e della sua vita attuale -scandita da ritmi volutamente sempre uguali, tranne che nei mesi estivi dove il paesino si anima e si fanno feste e cinema all’aperto per i dieci bambini che trascorrono qui le vacanze con i genitori - il lavoro comincia.
Dopo aver impastato per trenta pani, Ferruccio comincia a selezionare la legna per accendere il fuoco nel forno. “Il legno qui non manca di certo, essendo la fonte di reddito principale per i pochi rimasti. Io vado sempre, nei giorni in cui non faccio il pane, nei boschi a raccogliere i rami spezzati e gli scarti dei tagli, perché sono l’ideale per il mio forno.”
Incuriositi da “i giorni in cui non fa il pane” gli chiediamo come si svolge la sua settimana.
“Il pane che facciamo dura da tre a cinque giorni, anzi più è vecchio più è buono, per cui io faccio il pane due volte a settimana, per tutto il giorno dalle sette del mattino alle sette di sera. Il giorno dopo lo consegno in tutta la valle fino in città e, per me, è come andare in gita. I restanti tre giorni li dedico: un paio a far legna, occuparmi del mio piccolo bosco, mettere in ordine e la domenica è sacra.”
Invidiabile! Se penso allo stress a cui siamo sottoposti quotidianamente viene voglia di chiedere se ha bisogno di un aiuto ma, in quel momento entra il vero aiutante, sua moglie che magicamente inizia a creare le forme dei pani.
“E’ lei che sa misurare attentamente pesi e forme, io non ci sono mai riuscito troppo bene – confessa Ferruccio – A me spetta il compito di impastare, infornare, consegnare.”
Lasciamo che passi l’ora necessaria per portare a cottura i trenta pani, mentre Ferruccio ricomincia ad impastare; il caldo tiepido del forno induce a quella piacevole sonnolenza mattutina che interrompiamo andando a fare un salto a Tartago.
“Adesso, in estate, troverete alcune famiglie – ci racconta Ferruccio – Ma tra poche settimane Tartago tornerà ad essere uno splendido borgo completamente disabitato.”
Ci inerpichiamo per una stradina che, dopo essere passata attraverso un rigoglioso bosco, sale al paese. Una cosa ci colpisce subito: le case danno le spalle alla valle mostrando le pareti senza alcuna finestra. Il segno dell’isolamento, della dignità di auotosufficienza tipica degli abitanti di impervie montagne: il piccolo borgo è una meraviglia di pace!
Il ritorno vede Ferruccio visibilmente deluso: la prima infornata non gli è riuscita alla perfezione. “Colpa degli sbalzi di temperatura e di umidità. - sostiene Ferruccio – Il pane è una cosa viva che ogni giorno cambia umore. Questa notte la temperatura si è abbassata, dovevo immaginarlo.”
Ci consegna, mortificato, due pani da portare a casa. Sono le dieci del mattino, il profumo in auto è talmente inebriante e il senso di calore che emanano i due pani talmente coinvolgente che, né io né il fotografo Max, resistiamo. Sbocconcellandolo a piccoli pezzi raggiungiamo l’osteria del Ponte Gobbo a Bobbio, dove ordiniamo due bicchieri di vino bianco e fette di coppa piacentina in abbondanza. “Il pane ce lo mettiamo noi” dico all’oste. Se la prima infornata non è riuscita come voleva Ferruccio, il suo pane, per noi già sublime così, è degno di essere servito alla tavola degli dei.

2 commenti:

  1. Oggi siamo stati in quel bellissimo Borgo,siamo rimasti incantati,torneremo sicuramente!

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  2. Ci sono stato oggi ma sicuramente ci ritorno

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