martedì 6 gennaio 2009

Il matterello impattacato..


L'ho sentita oggi mentre stavo leggendo e in sottofondo la tv trasmetteva la Prova del Cuoco. Ho smesso di leggere ed ho guardato incuriosito la trasmissione, volevo vedere la signora che aveva pronunciato con la semplicità più naturale del mondo quella frase. Era una bella signora, una che potrebbe rientrare nella categoria delle razdore. Ma la sua bellezza era dettata dall'ottimismo, quello tipico delle persone che hanno faticato molto nel corso della vita. Un ottimismo, mi piace pensare, che aveva contagiato tutto lo studio televisivo, uno dei luoghi in assoluto più falsi che ci siano al mondo.

Ho avuto modo più volte di starci dentro ad uno studio televisivo e le regole non c'entrano nulla con quelle di un mondo normale, anche se capisco che i tempi della televisione sono blindatissimi.

Ebbene questa signora è riuscita a farmi guardare con occhi diversi questa trasmissione, che confesso non avevo mai visto se non di sfuggita, al punto che mi sono stupito dell'assenza della Clerici. Solo dopo ho scoperto che sta diventando mamma: auguri sinceri.

Torniamo alla trasmissione: la bella signora, il coro dei bambini, una ricetta della tradizione che ci aiuta a non dimenticare la nostra storia e quella bellissima frase "mi ci vorrebbe un matterello non così impataccato per tirare bene la sfoglia."

Pecco di buonismo? Non lo so ma oggi mi sono sentito bene anche grazie a questa trasmissione. O meglio ho imparato che ci sono ancora un sacco di persone che vivono in maniera semplice e sincera.

lunedì 5 gennaio 2009

Il savarin di riso con la spalla cotta è straordinario…


Ma non c’è solo quello che merita nella carta della Trattoria Podere San Faustino, ricavata da un eccellente recupero di una cascina rurale alle porte di Fidenza. La cucina di Simone è molto composita, con la giusta attenzione alla cultura gastronomica locale ma con punte di genialità che emergono in piatti creati con il meglio del made in Italy alimentare.
Si percepisce fin dall’ingresso che li si sta bene, uno spazio separa la cucina, a vista con una grande vetrata, dalla sala ricavata nella vecchia stalla. Tavoli rustici, alla giusta distanza tra loro, arredati con piccoli raffinati tocchi di stile contadino, come il pane servito in vecchi scolapasta di metallo.
La carta è quanto di più confuso possa esserci, senza grandi distinzioni tra le varie portate, ma anche questo è il segno di un modo di fare ristorazione senza rigidità, liberi di scegliere in base al piacere e basta.
Molto curata anche la carta dei vini, dove ci sono bottiglie che non sono facilmente reperibili sul mercato, non per il prezzo ma per la loro unicità.
Una sola avvertenza, rallentate quando siete vicini al locale perché la stradina d’accesso è un po’ nascosta e ci si passa davanti senza accorgersene. E prenotate, soprattutto nei weekend; i tavoli sono pochi e spesso pieni.
Trattoria Podere San Faustino Via San Faustino 33 FidenzaTel. 0524/881171

Il paesaggio, difenderlo è un bel mestiere


Nel 1990 si sono sposati e hanno creato il vivaio, un nome semplice, diretto e senza tanti fronzoli, che rende subito l’idea. Danilo Pugni da Rivergaro e Marinella Bergomi da Roveleto di Cadeo lavorano insieme e, basta vederli, felici da diciotto anni. Il segreto? La passione.
Danilo per le rose, Marinella per i giardini pensili. A lei date un terrazzo e vi creerà dal nulla una magia di colori e profumi, un perfetto equilibrio tra luce e ombra. A lui date dei germogli o dei boccioli di rosa e non capisce più niente.
A furia di produrre piante oggi ne hanno 10.000 nel loro vivaio a San Bonico, cinque ettari di verde accessibili a chiunque voglia un suggerimento, un consiglio, un acquisto (anche solo di un fiore). Diventa difficile non essere felici del proprio lavoro quando, nelle belle sere d’estate, Danilo prima di andare a casa, passa nel vivaio e fa un bel mazzo di fiori da portare a Marinella.
Messa così sembra una favola ma non lo è. E’ una bella storia di un bel mestiere, lo stesso che al tempo del tardo medioevo si chiamava “Corporazione dei Fiorai”.
Oggi fare il vivaista significa tutelare il paesaggio, amarlo, esaltare il piacere degli occhi e della mente. Non è un caso che Danilo e Marinella abbiano mosso i loro primi passi collaborando con la piacentina Anna Scaravella, forse l’architetto di giardini più innovativo che opera in Italia. Con lei Danilo e Marinella hanno imparato a dare un indirizzo preciso alla loro attività, ad affinare il gusto compositivo. Ed oggi la loro riconosciuta fama deriva dal fatto che hanno scelto di produrre le piante ma in funzione di quello che il territorio piacentino, con le sue palesi diversità di clima è in grado di accogliere. La collina piacentina gode sempre di più di un clima mediterraneo – racconta Danilo – Perciò i nostri giardini cerchiamo di realizzarli con piante adatte a quel clima: dai lecci agli olivi, dal corbezzolo alla lavanda.”
Non è un caso che, da pochi anni, sia ripresa in Val Tidone la produzione di olio extravergine d’oliva, grazie alla messa a dimora da parte degli agricoltori di decine e decine di piante d’olivo. IOppure che sui muri antichi del borgo di Vigoleno cresca il cappero.
“Mentre la pianura, il cui clima è più rigido vede la prevalenza di piante autoctone quali il carpino, l’acero campestre, il corniolo, il nocciolo, tanto per citarne alcuni.”
Ma è il forte senso del paesaggio quello che scaturisce dai racconti appassionati che Danilo e Marinella fanno del loro lavoro. Quando raccontano che non abbandonano mai le loro piante dopo che hanno fattio un giardino, un po’ perché diventano quasi sempre amici dei committenti, un po’ perché è difficile stare lontani dalla bellezza di un luogo a cui si è contribuito.
Dalle loro affermazioni e soprattutto dal loro modo di porsi verso gli altri si intuisce quanto il paesaggio sia importante per il benessere delle persone. Ognuno di noi cerca luoghi con un senso di armonia e di vivacità. Il mestiere del vivaista contribuisce in maniera determinante a questo.
“Dovrebbero rendere il gelso patrimonio culturale” se ne esce Danilo mentre gli chiedo quale può essere, tra le tante varietà autoctone la pianta simbolo del paesaggio piacentino. Già, un tempo il gelso era la pianta che metteva ordine nei confini, che delimitava le coltivazioni, che serviva per tutte le necessità. Dalla sua legna al prestigioso baco da seta, un’attività magnificamente descritta da Baricco nel suo libro e film Seta.
“Da noi la campagna era piena di gelsi, che crescevano forti, ombrosi, robusti e poi, improvvisamente ogni due o tre inverni, diventavano bitorzoluti e monchi perché l’uomo ne usava ogni singola foglia e ramo. Ma ricrescevano in fretta. Oggi stanno scomparendo, sta scomparendo la pianta simbolo del nostro territorio.”
Un appello vero e proprio quello di Danilo che poi si mette a parlare delle centinaia di varietà di rose che produce nel suo vivaio: da quelle più antiche come la rosa Gallica, a quelle inglesi come la Pat Austin Ausmum dall'inusuale colore. La sua grande passione attorno a cui ha raccolto decine di estimatori.
Un mestiere che implica una conoscenza approfondita del territorio, del clima ma anche della sua storia e Piacenza di storia di giardini ne ha da vendere. Basti pensare alle centinaia di ville nobiliari che punteggiano il paesaggio provinciale oppure ai grandi palazzi del centro storico cittadino: un vero e proprio inno alla bellezza. Quella stessa a cui hanno contribuito, nel corso dei secoli, gli artigiani che le hanno costruite e che ora le mantengono in ottimo stato, e i vivaisti come Danilo e Marinella.
Del resto una manifestazione raffinata come la Cena Bianca che si tiene ogni anno in Piazza Sant’Antonino la prima sera d’estate li vede protagonisti volontari nell’allestimento floreale della piazza, come tutti gli altri organizzatori. Quando il loro camion con la piccola gru si allontana a festa finita riportando le piante al vivaio, la piazza è un po’ più triste.

La caciotta amatissima


Le vacche sono di razza Reggiana, quelle rosse che danno il latte per fare il Parmigiano-Reggiano delle vacche rosse, ma qui sono in una stalla pulita e ordinata dell’Appennino Piacentino.
“Le ho tolte dall’iscrizione all’albero genealogico quando ho ceduto le quote latte. Ora sono le mie, ci ricavo il latte per i miei formaggi.” Così è cambiata, per l’ennesima volta, la vita di Ivano Dadomo, un contadino di 58 anni con doppia cittadinanza italiana e francese, dai lineamenti forti del viso, gli occhi cerulei, una forte inflessione francese nel suo modo di parlare.
Sono in una piccola località dell’Appennino piacentino, ai confini con la monagna parmense dove fino a pochi anni fa i camion della grande industria alimentare passavano a ritirare il latte.
“In questa area c’erano oltre oltre ottocento vacche da latte – racconta Bastianino Mossa, un veterinario di origini sarde che dedica al suo lavoro “quella passione senza la quale non si può fare nulla di grande al mondo”, come diceva il filosofo Hegel, su cui torneremo – Ora ne sono rimaste duecentocinquanta. In questa stalla ce ne sono diciasette, in gran parte le ho fatte nascere io e Ivano le alleva con una cura meticolosa.”
Con i miei occhi posso testimoniare cosa sia l’amore per questi animali. All’alba la mungitura a mano di tutte, seduto su un rudimentale sgabello che farebbe impazzire i designer di mezzo mondo: un cestello di plastica rossa per i bottiglioni di vino delle Cantine Riunite capovolto, ricoperto con una stoffa chiara come cuscino e legato con lo spago per renderne agevole lo spostamento tra una mucca e l’altra.
Al termine della mungitura il latte viene portato in una stanza per preparare le caciotte. Mani sapienti che hanno imparato i segreti per fare un buon formaggio solamente tre anni fa, quando Ivano scelse di cedere le quote latte ma di non vendere le sue mucche. Mani raffinate che sembrano uscite da un istituto di bellezza. “E’ il latte e il siero in cui lavorano tutte le mattine” confessa Ivano consapevole di rivelare un segreto che potrebbe essere carpito da qualche guru del beauty.
Ma a chi vende quelle caciotte? chiedo a Bastianino mentre lasciamo l’azienda e un paesaggio costellato da case di sasso antichissime e in gran parte abbandonate. “A chi sa che c’è Ivano” mi risponde. Un’ulteriore conferma di essere stato protagonista di un’alba straordinaria che mi ha permesso di conoscere un personaggio che ha coltivato uno stile di vita che, se praticato da molti, salverebbe il mondo dal disastro consumistico ed ambientale. Una vita ordinata, a costo zero, dove l’unico lusso è una televisione satellitare per restare in contatto con le notizie del mondo e un lavoro che ti concede il tempo di rielaborare i fatti e le notizie.
“Ho deciso di riprendere la cittadinanza italiana a cinquant’anni, dopo che ho avuto la certezza che non sarei stato richiamato sotto le armi. – racconta Ivano mentre lava la mammella di una Reggiana (chi mai fa più una cosa del genere?) prima di farvi attaccare il vitellino per una poppata che lo rende sazio e felice – Oggi posseggo due patenti e due carte d’identità, voto per due stati e quindi devo informarmi di cosa succede in questa Europa e nel mondo.”
“Ma soprattutto devo fare in modo, con il mio lavoro, che la natura possa continuare a seguire il suo percorso.” L’esempio del vitellino ci aiuta a capire il significato di queste parole.
Attaccare il vitellino alle mammelle come un tempo permette di mantenere la posizione corretta, decisa dalla natura, che consente al latte deglutito di finire nella parte giusta delle quattro dello stomaco della bestia, evitando contaminazioni con altri elementi; in tal modo viene garantita la crescita sana della bestia.
Quelli di Ivano sono vitelli allevati solo con il latte perchè oggi il consumatore chiede carne chiara e quindi niente erba, niente alimenti artificiali. Quando non mangiano i vitellini hanno la museruola per evitare che possano ingurgitare altre sostanze o che entrino in contatto con eventuali microbi.
Basta toccarli questi vitelli mansueti per capire come diventeranno robusti: pelo caldo, muscoli sodi, vita tranquilla grazie alla serenità che il loro padrone gli trasmette.
“Ivano è rimasto uno dei pochi che hanno scelto di rimanere a vivere e lavorare in queste montagne – mi racconta Bastianino il veterinario – Quando ha ceduto le quote latte ha preso un importo con cui non si sarebbe comprato neppure una Panda usata. Per persone così io voglio lavorare. Persone che salveranno la terra dal disastro ambientale, che manterranno viva la memoria e le tradizioni, fondamentali per la nostra identità.”
Per questi contadini Bastianino si è fatto promotore di un concreto progetto di riqualificazione: un centro unico per la raccolta del latte dell’Appennino piacentino che ha già un suo centro di imbottigliamento e commercializzazione del latte a marchio piacentino. Un’altra delle sue iniziative ha dato vita al primo Grana Padano biologico, senza isozima, fatto solo con il latte dell’Appennino piacentino. Eccola la passione hegeliana; ma di questi progetti parleremo ancora, in altri articoli.
Siamo ormai a metà mattina e Ivano deve fare le pulizie della sua stalla, piastrellata, con l’icona di Sant’Antonio abate su cui è sempre acceso un lumicino a tutela e protezione delle sue vacche rosse, tenute come vacche sacre. Non so come siamo arrivati a parlare di De Gaulle, “una persona che quando parlava “la fava tramla anca al foi” (faceva tremare anche le foglie), così sintetizza Ivano, in bel dialetto piacentino con la erre francese, la statura del presidente francese di quando lui viveva a Parigi.

Là dove il mare luccica


“Mi raccomando, arrivate entro le 19 che ci imbarchiamo”, con questa raccomandazione ci organizziamo per raggiungere il porto di Oneglia in tempo utile. Arrivati in prossimità della cittadina ligure ci comunicano che la partenza è spostata alle ventidue “perché gioca l’Italia.”
Che fare? Intanto si scopre un pezzo di città; molto marinara, per certi edifici ricorda alcuni porti dell’Africa del Nord. Effetto della bellissima luce che accompagna il tramonto e che lascia presagire una notte tranquilla in mezzo al mare.
Poi si cerca il peschereccio tra i tanti che sono attraccati. “Imeia”, l’antico nome di Imperia, è il segno di riconoscimento. Trovato; l’aspetto un po’ precario mi preoccupa ma sarà superato dalla perfetta organizzazione che troverò a bordo di lì a poco. Ed ora? Si cena e si aspetta.
Alle 22 arriva Mario Gentile, presidente della Cooperativa di pescatori con cui affronteremo la lunga notte. Saliamo a bordo e mi metto in un angolo ad osservare tutte le manovre per l’uscita in mare aperto. Ognuno ha un proprio ruolo: Massimo, Luigi, Mario, Marino si dividono i compiti, chi alla guida, chi alle reti, chi alle barchette che verranno calate in mare per spingere il branco di pesci verso la “lampara”, così si chiama la rete che racchiude in forma circolare la parte di mare dove viene sospinto il pesce e che dà il nome a questo tipo di pesca.
“Sono diversi anni che le alici non arrivano più da noi in grandi branchi – racconta Mario, tra un ordine dato in un incomprensibile dialetto e il caffè sorseggiato, fatto con la moka nel piccolo spazio dedicato alla cucina – Questo è il periodo migliore, tra fine maggio e giugno. Poi dovremo diversificare la nostra pesca perché a luglio arrivano totani, palamite, calamari. L’acciuga ha un buon mercato se grossa, ideale per la salagione ma ce ne sono poche per cui anche il prezzo è abbastanza interessante.. Non riusciamo a sapere cosa succederà stanotte, ogni volta è diverso ed è sempre una sorpresa. A volte amara, quando si pesca poco.”
Ogni notte fuori, in mare. A me viene in mente “là dove il mare luccica e tira forte il vento..” del Caruso di Lucio Dalla ma, in realtà, questo è un lavoro tra i più faticosi del mondo dove, per i piccoli pescherecci, la tecnologia non ha soppiantato la fatica fisica del far scendere le reti e ritirarle su, pesantissime con il pescato.
Il romanticismo con cui ho coltivato l’idea di questo viaggio svanisce rapidamente con l’umidità della notte, con le onde che muovono la barca, con il rumore causato dai generatori posti sulle barchette che vengono calate in mare assieme ad un marinaio che, su ognuna, ha il compito di indirizzare il branco.
“Non si esce mai con la luna piena – racconta uno dei marinai – perché altera la luce artificiale che abbiamo sulle barche e che serve ad attirare il branco.”
Eccolo, un nutrito branco di pesce azzurro si avvicina alla luce della barca. Le barchette si avvicinano e si allontanano dal peschereccio, spingono il branco dentro la rete, ne vanno a cercare altro, il cerchio poco alla volta si restringe. Mi fanno allontanare perché “qui tra poco sarà un diluvio di acqua” non capisco “se il cielo è limpido” cerco di accennare timidamente quando uno scroscio occupa tutto lo spazio del peschereccio. Sono passate tre ore e si è issata la prima “lampara”. Scarso bottino. Il dialetto si spreca e non oso chiederne la traduzione!
Siamo a sole due miglia dalla costa, le luci sulla terraferma cominciano a spegnersi una dopo l’altra, sono le due di notte e gli uomini dell’equipaggio stanno stendendo le reti circolari per la seconda volta. Nessuno ha una gran voglia di parlare: il silenzio è rotto solo dal rumore assordante dei generatori a bordo delle barchette e il buoi dalle luci che gli stessi alimentano. Mi siedo a prua, l’unico angolo buio e silenzioso; verso le quattro mi raggiunge Mario, “la vedi quella stella che è spuntata, la più luminosa? Quando cala i pesci vengono in superficie e, quando sono tanti, saltano anche sulla barca. Ma temo che questa notte non sarà così.”
Ci mettiamo a parlare del mercato delle acciughe, le cassette da dieci chili si vendono sul mercato del pesce a Savona tra i 30 e i 60 euro al chilo, dipende da pezzatura e da quantità dell’offerta. Un commercio che si perde nella notte dei tempi e che ha dato vita alle grandi vie di comunicazione tra mare e terra, allo scambio tra acciughe e olio, tra sale e spezie. Forse quello dell’acciuga è uno dei primi esempi di contaminazione culinaria.
“Al rientro in porto ci saranno anche alcuni dettaglianti e anche i privati che ci compreranno qualcosa. Una certa parte viene riservata ai ristoratori del posto, ma il grosso viene messo sui camion che ci aspettano per raggiungere i mercati.” racconta Mario.
Sono le quattro, è tempo di tirare su la rete per l’ultima volta. Non è andata meglio ma loro, i marinai, non sembrano particolarmente arrabbiati; forse sanno fingere molto bene oppure sanno che domani è un altro giorno.
Comincia la seconda fase, che accompagna il rientro in porto. Con il cellulare si inizia la contrattazione con il mercato (sono le quattro e trenta), ci si fa un altro caffè e poi si comincia a suddividere, nelle cassette di legno da dieci chili, il pescato. La maggior parte sono alici, ma ci sono anche tonnetti, polpi, calamari, ricciole e merluzzetti.
Un rumore assordante cresce attorno a noi e, mentre comincia ad albeggiare, ci ritroviamo circondati da decine e decine di gabbiani che si tuffano con il becco in acqua per acciuffare i pesci che vengono scartati.
Una lunghissima scia bianca di ali e di spruzzi che accoglie il sorgere del sole. Il porto si fa vicino, è già animato da autisti, pescivendoli e pensionati. Mi viene da pensare che è più bello, per un pensionato, vedere una barca che rientra in porto che non un escavatore che interra i cavi della luce.
Salutiamo Mario e i suoi mentre si stanno preparando la colazione, a base di pesce azzurro, in porto prima di andare a dormire. La luce continua ad essere bellissima.

Zafferano


L’alba a Civitaretenga, in una tiepida mattina d’autunno del nostro arrivo, è scandita dal suono di piccole campanelle che ricordano la scena più erotica di Brivido caldo; quella in cui Matty Walzer (interpretata da Kathleen Turner) aspetta dietro le vetrate della sua villa uno sconosciuto incontrato poche ore prima in un bar di Miranda Beach, con il vento caldo che fa vibrare le campanelle e i sensi.
Ma non siamo in Florida e il suono è quello degli animali al pascolo nelle colline vicine. Un suono che giunge fino a noi grazie al silenzio rarefatto di questo luogo dallo strano nome.
Civitaretenga ha avuto un passato importante, scopriremo più tardi seguendo un gruppo di turisti americani che hanno scelto una vacanza in questi luoghi per conoscere da vicino gli usi e i costumi e i cibi di questa terra.
Qui ha infatti le radici la famiglia Santucci, che aveva tra i suoi componenti un monaco benedettino che, nel 1230, al Sinodo di Toledo fu uno dei protagonisti della nascita dell’Inquisizione.
Ma non per questo il monaco divenne famoso bensì per aver portato a Navelli, dalla Spagna, i semi del Crocus Sativus Linneo, più noto come Zafferano.
Otto secoli fa questo monaco cambiò la vita e le condizioni sociali della piana di Navelli, e da allora, tra alti e bassi, lo zafferano condiziona ancora le abitudini e l’economia di questa parte di terra italiana.
Dopo otto secoli un altro personaggio ha deciso di dedicare passione, fatica, impegno per lo zafferano di Navelli: Silvio Sarra, un uomo di settant’anni di cui la metà e forse più consacrati allo zafferano. Ma di lui parleremo dopo.
Ora sta albeggiando e si deve andare nei campi per cogliere i fiori dello zafferano. Ci muoviamo dalla casa-agriturismo di Silvio e di sua sorella Gina seguendoli sulla loro strepitosa Fiat Duna targata AQ230039. Dietro di noi un pulmino che immaginiamo essere di lavoranti assoldati da Silvio per la raccolta.
Infatti con noi si è raccomandato la puntualità “alle 7 così ci siamo tutti”, ci ha detto la sera prima. Un comitato d’onore tutto per noi? Questo piccolo peccato di ego è stato subito ridimensionato, quando, arrivati sul campo, dal pulmino vediamo scendere uomini e donne vestiti North Face da capo a piedi: turisti americani che stanno facendo una cooking class organizzata dal bravissimo Alessio Di Giulio di Ilex (acronimo di Italian Landscape Exploration).
Ma soprattutto americani che, armati di secchiello e sotto la benedizione di Silvio che ha sparso attorno a loro con fare propiziatorio i petali dello zafferano raccolto il giorno prima, si avventurano timidamente alla raccolta dei fiori.
“Prime luci dell’alba, solo così si possono raccogliere i fiori di zafferano, ancora chiusi, altrimenti diventa molto difficile sfiorarli” è la prima raccomandazione di Gina al gruppo di americani e a noi che seguiamo passo passo Gina e Silvio intenti in una raccolta con fare sapiente di chi sa.
Il campo non è particolarmente affascinante e chi come noi sperava di trovare manti color malva rimane leggermente deluso. Ma è una delusione di pochi attimi, che svanisce quando il racconto si fa più serrato ed intrigante.
“Solo ogni mattina noi sappiamo quanti fiori troveremo, a volte vere e proprie distese, altre piccole macchie fiorite”, questo è anche il fascino di questo fiore che sente moltissimo le più piccole variazioni climatiche. Ma lo zafferano si trova a Navelli perché il terreno è particolarmente vocato, chiediamo? “No”, ci risponde lapidario Silvio raccontandoci a suo modo la storia del monaco Santucci che, “tornato (nel 1230?) da Toledo nascose i semi nell’incavo del bastone da viaggio e li trapiantò qui.” Fantastico come la storia possa avere mille modi di essere raccontata.
Comincia a spuntare il primo sole. Il campo è stato completamente ripulito dai fiori, gli americani sono strafelici di aver lavorato in questo modo, le foto si sprecano, così come i sorrisi. La giornata comincia bene. Abruzzo, terra sincera, ripete Gina!
“Ed ora si va a casa, tutti, a fare colazione ma prima, intanto che noi prepariamo” ci suggerisce Silvio “andate a visitare Civitaretenga con gli americani: c’è da vedere il ghetto ebraico, il palazzo Santucci, la torre medievale”. Ci dispiace lasciare Silvio e Gina, infatti il nostro tour è stato rapido, anche perché all’alba avevamo già camminato in silenzio per le viuzze minuscole di Civitaretenga.
Entriamo in casa e il tavolo è un esplosione di color malva e rosso croco. Il lavoro di sfioratura è già iniziato, Silvio è velocissimo ad estrarre i tre pistilli di zafferano dal fiore. Io provo, con il terrore di rompere questi delicatissimi e preziosi fili. “Non preoccuparti, tra qualche minuto andrai più veloce e con l’abitudine potrai arrivare a sfiorare anche mille fiori ogni ora” afferma Silvio, mentre attorno al tavolo, oltre a lui, a Gina e al sottoscritto si accomodano anche gli americani. Tanti piccoli mucchietti di pistilli si accumulano, nuvolette quasi eteree dal peso di pochi milligrammi.
Una mattina insolita dove i ricordi di Silvio e Gina si sovrappongono alle loro riflessioni sul futuro di questa produzione, le leggende si mescolano ai racconti della seconda guerra mondiale quando queste montagne erano terreno di aspri scontri tra tedeschi e partigiani.
La più bella delle leggende è quella di Smilace, una ragazza bellissima preferita dal dio Ermes, ma innamorata di un giovane ragazzo che venne, per gelosia, tramuto dal dio in crocus, il fiore dello zafferano. Da allora lo zafferano è considerato simbolo di amore e di pace!
“Tutti attorno alla tavola per la colazione” invita Silvio. Bruschette con peperoncini abbrustoliti in un tegame di olio fumante, spicchi d’aglio cotti in camicia, vino rosso del contadino a volontà. Alle 9 del mattino è ciò che ci vuole, l’alba è un tempo ormai remoto.
Gina dov’è? chiediamo all’unisono.
La troviamo nell’altra stanza, sulla poltrona accanto al camino. La stessa dove suo padre ha trascorso oltre quarant’anni a controllare la tostatura dei pistilli. Un ritmo lento, lentissimo del setaccio sopra il fuoco, un movimento circolare che diffonde la tostatura in maniera uniforme. Lo zafferano è pronto. Per dieci anni può durare!

Il pane ce lo mettiamo noi


Attraversare il Ponte Gobbo di Bobbio all’alba per salire in alta Val Trebbia fa un certo effetto. La leggenda dice che sia stato costruito dal diavolo che in cambio comprò l’anima dell’oste che aveva una trattoria, tuttora esistente, al di là del fiume.
Ma la sensazione più forte è il pensiero che su queste “gobbe” sono passati nei secoli migliaia di pellegrini, i transiti commerciali tra il mare di Genova e le terre padane, i soldati di Annibale. Perché qui siamo nel cuore del passaggio di Annibale e della battaglia sulla Trebbia, nel 213 a.c.
Da qui raggiungiamo la Val Boreca, ai confini estremi della provincia piacentina, praticamente si sente già il profumo e gli umori del Mar Ligure, dove le tracce di Annibale si avvertono ovunque, a cominciare dai nomi dei paesi: Zerba (Djerba), Tartaro (Cartago), al Monte Penice il nome latino dei Cartaginesi: "phoenices" ossia fenici.
E’ un vero e proprio viaggio quello che ci porta, alle prime luci del giorno, a Cerreto per incontrare un fornaio di cui abbiamo sentito ogni sorta di lode. Arriviamo a casa sua, in un paese dove il silenzio è l’elemento costante, visto che ci vivono esattamente quindici persone, di cui un terzo compongono la famiglia di Ferruccio Arrigon, milanese, fornaio, con moglie e tre figlie.
“Un caffè?”, ci accoglie Ferruccio mentre comincia ad impastare farina nel suo forno, ricavato da una vecchissima casa in sassi e beole del Seicento, come la maggior parte degli edifici di questo e degli altri paesi della Val Boreca, ormai tutti abbandonati.
Il forno è collocato in una stanza di venti metri quadrati, un microcosmo di magia e profumi in cui Ferruccio regna incontrastato. L’ingresso è da una porticina, su cui campeggia la scritta laboratorio, in cui è d’obbligo piegarsi per entrare, a conferma di come i contadini un tempo fossero di bassa statura; dentro, alle pareti, calendari indiani e una foto in bianco e nero che raffigura un indiano.
“E’ stato il mio maestro spirituale quando, negli anni ’70, sono andato per diversi mesi in India – racconta Ferruccio – Al ritorno, dopo aver lavorato nell’hinterland milanese per alcuni anni, con mia moglie abbiamo deciso di venire a vivere quassù, aprendo un ristoro agrituristico dove, tra i primi, abbiamo intrapreso la strada del biologico. Solo dopo è venuta questa passione per il pane.”
Intanto che Ferruccio ci parla della sua esperienza indiana e della sua vita attuale -scandita da ritmi volutamente sempre uguali, tranne che nei mesi estivi dove il paesino si anima e si fanno feste e cinema all’aperto per i dieci bambini che trascorrono qui le vacanze con i genitori - il lavoro comincia.
Dopo aver impastato per trenta pani, Ferruccio comincia a selezionare la legna per accendere il fuoco nel forno. “Il legno qui non manca di certo, essendo la fonte di reddito principale per i pochi rimasti. Io vado sempre, nei giorni in cui non faccio il pane, nei boschi a raccogliere i rami spezzati e gli scarti dei tagli, perché sono l’ideale per il mio forno.”
Incuriositi da “i giorni in cui non fa il pane” gli chiediamo come si svolge la sua settimana.
“Il pane che facciamo dura da tre a cinque giorni, anzi più è vecchio più è buono, per cui io faccio il pane due volte a settimana, per tutto il giorno dalle sette del mattino alle sette di sera. Il giorno dopo lo consegno in tutta la valle fino in città e, per me, è come andare in gita. I restanti tre giorni li dedico: un paio a far legna, occuparmi del mio piccolo bosco, mettere in ordine e la domenica è sacra.”
Invidiabile! Se penso allo stress a cui siamo sottoposti quotidianamente viene voglia di chiedere se ha bisogno di un aiuto ma, in quel momento entra il vero aiutante, sua moglie che magicamente inizia a creare le forme dei pani.
“E’ lei che sa misurare attentamente pesi e forme, io non ci sono mai riuscito troppo bene – confessa Ferruccio – A me spetta il compito di impastare, infornare, consegnare.”
Lasciamo che passi l’ora necessaria per portare a cottura i trenta pani, mentre Ferruccio ricomincia ad impastare; il caldo tiepido del forno induce a quella piacevole sonnolenza mattutina che interrompiamo andando a fare un salto a Tartago.
“Adesso, in estate, troverete alcune famiglie – ci racconta Ferruccio – Ma tra poche settimane Tartago tornerà ad essere uno splendido borgo completamente disabitato.”
Ci inerpichiamo per una stradina che, dopo essere passata attraverso un rigoglioso bosco, sale al paese. Una cosa ci colpisce subito: le case danno le spalle alla valle mostrando le pareti senza alcuna finestra. Il segno dell’isolamento, della dignità di auotosufficienza tipica degli abitanti di impervie montagne: il piccolo borgo è una meraviglia di pace!
Il ritorno vede Ferruccio visibilmente deluso: la prima infornata non gli è riuscita alla perfezione. “Colpa degli sbalzi di temperatura e di umidità. - sostiene Ferruccio – Il pane è una cosa viva che ogni giorno cambia umore. Questa notte la temperatura si è abbassata, dovevo immaginarlo.”
Ci consegna, mortificato, due pani da portare a casa. Sono le dieci del mattino, il profumo in auto è talmente inebriante e il senso di calore che emanano i due pani talmente coinvolgente che, né io né il fotografo Max, resistiamo. Sbocconcellandolo a piccoli pezzi raggiungiamo l’osteria del Ponte Gobbo a Bobbio, dove ordiniamo due bicchieri di vino bianco e fette di coppa piacentina in abbondanza. “Il pane ce lo mettiamo noi” dico all’oste. Se la prima infornata non è riuscita come voleva Ferruccio, il suo pane, per noi già sublime così, è degno di essere servito alla tavola degli dei.

Parigi val bene una messa


Bionda, occhi chiari e trasparenti, sorriso coinvolgente, sembrerebbe il ritratto di una show-girl o di una studentessa della buona borghesia di un tempo. Invece è il ritratto di Géraldine Bernard, una ragazza francese rimasta folgorata dai luoghi che compongono l’antico Ducato di Parma e Piacenza e che lei ha visitato per la prima volta nel giugno 2007, ospite dell’Associazione Castelli del Ducato di Parma e Piacenza.Le lundi 4 juin de l’an de grâce 2007, début de l’Aventure. Vers une heure de l’après-midi, j’atterris sur les pistes de l’aéroport de Milan et je me lance de suite au volant d’une belle Lancia Y sur les traces des châteaux, des vins et des saveurs émiliens. Alors que je conduis, je me remémore les détails qui ont fait que je m’apprête aujourd’hui à vivre une nouvelle expérience pleine de promesses. Con queste parole inizia il diario di Géraldine che ora si può trovare sul sito http://www.chateauxditalie.eu/.Eh si, perché la ragazza francese da quel viaggio ha deciso di intraprendere l’attività di promozione turistica delle nostre terre verso il mercato francese, si è fatta il sito creando pacchetti su misura ed in pochi mesi ha avviato una robusta rete di relazioni tra il territorio di Parma e Piacenza e gli operatori francesi. Al punto che recentemente si è tenuto un incontro ad Amboise, uno dei più prestigiosi castelli francesi, tra il direttore del castello e il Conte Orazio Zanardi Landi, presidente dell’associazione Castelli del Ducato di Parma e Piacenza per verificare iniziative comuni di promo commercializzazione turistica dei due territori.Come ci si sente in questi casi? “Molto felice – afferma Géraldine Bernard – perché è il primo risultato del mio nuovo lavoro di promoter delle vostre terre.”Ma come ti è venuto in mente di inventarti questo lavoro? “Io provengo da un’esperienza con un tour operator francese che mi ha consentito di conoscere le regole del mercato e, quando sono arrivata da voi, mi sono subito innamorata delle vostre qualità: nell’accoglienza, nelle magnifiche dimore, nel paesaggio e nella cucina. – continua Géraldine – Al punto che, al mio ritorno a Parigi, ho cominciato subito ad elaborare idee e proposte di viaggio da sottoporre agli operatori francesi e alla stampa. Stanno già uscendo degli articoli sui castelli del Ducato di Parma e Piacenza sulla rivista Aladin, letta da oltre 240.000 persone in Francia. I tempi di un lavoro di questo tipo sono lunghi prima di vedere risultati significativi, ma sono talmente affascinata dai vostri luoghi che riuscirò a penetrare sul mercato francese e farli conoscere.”Un grande esempio di cosa vuol dire credere in ciò che si fa.

L’agricoltura eroica


Solo per raggiungere Lenzari significa capire cosa significa “l’agricoltura eroica”; siamo alle spalle di Albenga, affacciata su di un mare che sta accogliendo le primissime luci dell’alba, e ci addentriamo nella Valle Arroscia per raggiungere la zona di produzione dell’aglio di Vessalico.
A pochi chilometri da una costa strainvasa dal turismo, incontriamo paesini dove il tempo si è davvero fermato: luoghi con un unico negozio che fa uso delle antiche licenze “coloniali” del dopoguerra, punto di riferimento per ogni necessità, dal giornale alle mollette per il bucato, dalla pasta alle bombole del gas. Altro che megacentri commerciali, qui nello spazio di poche decine di metri è concentrato ogni genere commerciale corrispondente alle effettive necessità.
Da zero a cinquecento metri sul livello del mare, percorsi in una manciata di chilometri, su una stradina che si inerpica stretta e ripida tra tornanti e uliveti, che sembrano anche loro affaticati, come se avvertissero gli sforzi caparbi degli agricoltori di questa terra che, per secoli, hanno strappato alle pietre lo spazio per sopravvivere alla fame, coltivando uva, ulivi, ortaggi; a volte per praticare scambi commerciali tra terra e mare, spesso per l’autoconsumo.
Arriviamo all’agriturismo Le Gemelle che albeggia ma questa è la condizione obbligatoria per chi, come me e il fotografo Max Conti, decide di raccontare il cibo che si produce e si muove tra le quattro e le sette del mattino.
In alto, in un luogo apparentemente inaccessibile troviamo questa struttura con poche camere ma sempre frequentate d’estate, dove vive e lavora una delle famiglie che compongono la Cooperativa “A resta”, piccolissimo manipolo di produttori dell’aglio di Vessalico. Il nome della cooperativa è il termine dialettale della treccia.
Un aglio antico, come testimonia la Fiera omonima che si svolge il 2 luglio di ogni anno sul prato di Canavia a Vessalico, dal 1760. L’aglio di Vessalico ha una caratteristica che ci ha spinto ad inserirlo tra i prodotti di Sunrise Fodd; si raccoglie alle primissime luci del giorno perché il gambo resta morbido e consente di intrecciarlo.
“Lo raccogliamo a partire dalla notte di San Giovanni, la notte della rugiada, e proseguiamo fino al giorno della fiera – ci racconta Francesca Castellari, intrecciatrice di aglio dall’infanzia, circa mezzo secolo orsono – quando lo raccogliamo il bulbo del nostro aglio è rosso, poi seccando diventa bianco. Lo prepariamo nelle trecce, fatte con tredici teste d’aglio. Tanti anni fa le teste per ogni treccia erano 25, oggi sono più piccole per una richiesta del mercato.”
La vediamo al lavoro, seduta sul prato del suo agriturismo, mentre il sole che abbiamo visto un’ora fa sorgere piano dal mare riesce a bucare le montagne e illuminare fievolmente il suo lavoro; le mani di Francesca si muovono con un’abilità consumata, ogni due minuti una treccia.
“Faccio questo mestiere da cinquant’anni, assieme a mio marito, che si occupa della coltivazione. – prosegue Francesca – Prima di sposarmi abitavo nella vallata accanto, con più gente, con più negozi, poi sono arrivata quassù e dopo i primi tempi ho cominciato ad apprezzarne la quiete.”
Coltivare l’aglio è una pratica antica che si ripete sempre uguale da secoli: stiamo parlando di un prodotto vivo che richiede tempi ben definiti di piantagione e di raccolta, che subisce gli influssi della luna. Se lo si tocca di luna nuova l’aglio patisce, va lavorato solo di luna vecchia e la maggior parte del raccolto dell’aglio di Vessalico se ne va per il mantenimento del seme, che si tramandano da intere generazioni. Oggi si producono circa 5.000 trecce di aglio ogni anno, il 30% del raccolto si perde per bulbi di dimensioni troppo piccole o muffe che lo intaccano.. Ovviare a queste perdite sarebbe possibile ma i produttori hano scelto la strada del biologico, consapevoli che la qualità naturale vale ben di più della perdita di una parte del raccolto, pur consistente.
“Carlin Petrini venne quassù da noi nel 2000, durante l’estate e si appassionò alla nostra determinazione di mantenere in vita questo prodotto, estremamente povero e sottoposto ad una concorrenza internazionale che si basa sulle grandi quantità produttive. – continua Francesca, mentre le trecce si accumulano sul prato – Da quella visita iniziò il percorso che ci ha portato ad essere Presidio Slow Food.”
Tecniche di coltivazione naturali, come l’erba che si strappa a mano nei campi recintati per impedire che i cinghiali li devastino con il loro passaggio. La semina avviene tra ottobre e novembre, da quel momento inizia una cura quasi maniacale del germoglio che cresce lentamente, bagnato solo dalla pioggia naturale perché i campi sono talmente impervi che diventa molto difficoltoso innaffiarli, fino alla tarda primavera per poi essere raccolto e trattato con la cura che merita un prodotto che ha sfidato secoli di storia.
I cinque soci della cooperativa condividono ogni scelta, si sentono profondamente legati a questo prodotto e progetto, a tal punto di scegliere di vivere qui, in alta Valle Arroscia, dove gli echi del consumismo e della frenesia arrivano attenuati, filtrati dai negozi con licenza “coloniale”, dove la regola è quella del tempo scandito dai cicli naturali del mondo e dall’abilità ad interecciare l’aglio all’alba, tredici bulbi ogni due minuti.

Enrica Sidoli, professionista dell’accoglienza


Giovane, determinata, simpatica e seria professionista dell’accoglienza e della ristorazione cercasi. A questo annuncio potrebbe rispondere a pieno titolo solo lei: Enrica Sidoli da Vigolo Marchese, proprietaria, insieme alla sua famiglia di cuochi, baristi, camerieri della Trattoria del Turista e della Locanda Sidoli. Ma cos’ha di così speciale questa ragazza, da meritarsi di essere citata tra le donne delle Terre Verdiane?Il pregio del coraggio che l’ha spinta, intorno ai ventisette anni, ad affrontare una piccola importante impresa: riaprire le stanze della locanda, posta sopra alla trattoria, chiuse dagli anni ’70 quando ospitavano operai e villeggianti, e ricavarne un delizioso hotel con 10 camere. La prima, anche se insufficiente, risposta al bisogno di soddisfare la domanda ricettiva del borgo. Facile a prima vista, ma meno ad un’attenta analisi. Intanto perché la Locanda Sidoli non è nel borgo medievale ma nella frazione di Vigolo Marchese, che dista circa 5 chilometri. Poi perché creare dal nulla una struttura, solo con le proprie idee, non è come dirlo. A due anni di distanza dall’inaugurazione la Locanda Sidoli ha aggiunto altre due stanze ed è sempre piena nei weekend: un bel risultato, che meritava di essere raccontato. Spesso si teorizza che i giovani non hanno sbocchi professionali, ed è in parte vero. Ma altrettanto si può affermare che la volontà e la determinazione vincono su ogni difficoltà. Ed Enrica ne è l’esempio che vi abbiamo voluto raccontare. L’accoglienza alla Locanda Sidoli è quella di un piccolo hotel di charme, con la padrona di casa sulla porta al vostro arrivo. Il sorriso, non mascherato, è una costante di Enrica che trasferisce un contagioso buonumore agli ospiti e agli avventori. Una volta arrivati in camera i servizi di un quattro stelle ci sono tutti: set cortesia, tv lcd, frigobar, servizio sempre reperibile. Ma sono due le cose più intriganti: il silenzio che regna nel paese, che si avverte ad ogni ora del giorno e della notte e che porta a rilassarsi davvero. La seconda è legata ad un acquisto fatto da Enrica per sé ma che finisce inevitabilmente di “essere usata per e dagli ospiti”: sto parlando di una Vespa 50, che un rigattiere gli ha venduto e che lei ha fatto dipingere con i colori aziendali. Io l’ho provata scorrazzando per il meraviglioso paesaggio che circonda l’hotel e le vibrazioni, i rumori, le emozioni che una Vespa degli anni ‘60 ti dà non ha uguali. Solo per fare un giro varrebbe la pena di dormire alla Locanda Sidoli

“Ero giovanissimo..


avevo tredici anni, quando ho cominciato a fare questo lavoro a Fiorenzuola, alla Cooperativa Fanin. A trenta ho aperto il Salumificio Alsenese, con altri soci, eravamo in sette persone a lavorare. Si insaccavano i salumi interamente a mano; per ottenere la grana grossa del salame ricordo che avevamo costruito a mano un rudimentale macinino.” Così inizia il racconto di Antonio Manini, oggi a capo del più grande salumificio piacentino, leader nella produzione dei salumi piacentini a Denominazione di Origine Protetta.
Quasi cento dipendenti per un’azienda che, credendo nella qualità, ha varcato i confini locali per diventare conosciuta su tutto il territorio nazionale.
Il Salumificio Alsenese si trova da sempre lungo la Via Emilia, uno degli assi più trafficati del nostro territorio e la scelta del luogo non è avvenuta per caso. Proprio in questa scelta sta una delle geniali intuizioni che caratterizzano questo imprenditore. Infatti, siamo nei primi anni ‘70, già allora Antonio Manini si poneva il problema dei servizi, collegati all’attività aziendale.
“Si trattava di decidere tra due ipotesi, o aprire il salumificio sulle colline, - racconta Manini – oppure scegliere un luogo dove il cliente poteva trovare facile accesso, con uno spaccio sempre aperto e soprattutto dove la logistica assumeva un ruolo strategico.”
La scelta è caduta su questa seconda ipotesi e venne individuato Alseno come sede dell’azienda. Oggi Alseno è una realtà economica e produttiva in fase di crescita, dopo aver attraversato momenti faticosi con la chiusura di due importanti fabbriche, e il salumificio è diventato un importante punto di riferimento per l’occupazione.
“Negli scorsi anni abbiamo assorbito, di concerto con il Comune e con i sindacati, buona parte delle maestranze di un’azienda locale che ha chiuso i battenti. – continua Manini – Eravamo in una fase di contrazione del mercato ma abbiamo deciso di investire sulle persone e sulla tecnologia. Per le persone era un atto dovuto ed oggi sono solo contento di quella scelta che, dopo un importante processo di formazione, mi permette di contare su manodopera qualificata.” Questo processo ha generato l’assunzione di tutti i dipendenti a tempo indeterminato e di due laureate in tecnologia alimentare, con il compito di seguire tutto il processo di filiera.
Dietro alle persone c’è stata la scelta della tecnologia che ha significato un ampliamento dei capannoni, nuovi macchinari per il preaffettato in vaschetta in atmosfera protettiva ma soprattutto, l’investimento in qualità.
“Siamo la provincia italiana che ha avuto la fortuna di ottenere la Denominazione di Origine Protetta su ben tre salumi, la Coppa, la Pancetta e il Salame. – prosegue Antonio Manini, ricordando gli anni in cui è stato presidente del Consorzio Salumi Tipici Piacentini – Nel periodo in cui sono stato presidente del Consorzio la Camera di Commercio ha dato vita ad un ente di certificazione, l’ECEPA, con il compito di controllare la filiera dei prodotti DOP. Io stesso ho fermamente creduto al valore di questo marchio ed oggi mi ritrovo con un patrimonio di esperienze e capacitò produttive che mi consentono di essere presente in ogni parte d’Italia con i miei salumi di Casa Manini.”
Casa Manini? chiediamo incuriositi.
“Si, perchè nella fase di cambiamento un amico mi pose questo quesito: hai un bel cognome, perfetto sul piano commerciale, perché non lo usi? Da lì ho cominciato ad utilizzare Casa Manini sui prodotti di fascia alta:”
Ma quanto pesa la produzione DOP sul resto?
“La mia azienda detiene il 45 % sull’intera produzione di salumi piacentini a Denominazione di Origine Protetta. Investire sulla DOP significa scegliere l’unicità di un territorio e di un prodotto, significa sottoporsi ad un rigido disciplinare che tutela il consumatore, significa avere la soddisfazione di essere scelto dai marchi commerciali più grandi ed importanti d’Italia. Senza la qualità unita alla capacità produttiva non saremo mai arrivati dove siamo ora.” Con queste parole Antonio Manini riassume il percorso che la sua azienda ha intrapreso dall’inizio del 2000.
Fino a pochi anni fa il consumo dei salumi era limitato a pochi prodotti, di basso costo: mortadella, veronella, cucciolata, pancetta, qualche volta il prosciutto crudo. Si mangiavano salumi buoni quando si usciva in trattoria o comprandoli direttamente dal contadino che aveva “fatto su” il maiale.
Progressivamente sono subentrate nuove esigenze alimentari e anche i salumi sono stati ripensati, mantenendo inalterate le tecniche di produzione ma conferendo loro maggiore qualità e garanzie per il consumatore.
L’azienda di Manini è stata sempre al passo, a volte anticipando i tempi, con questo percorso. Nel 1997 ha ottenuto la certificazione ISO 9001:2000, nel 2004 la ISO 14001:2000; nel 2001 è stato il primo salumificio dell’Emilia-Romagna ad ottenere la certificazione ambientale EMAS.
Attenta al cambiamento delle modalità di consumo – qual è la famiglia che compra una pancetta di otto chili? Si è chiesto Antonio – ha introdotto in azienda, con un fortissimo investimento, le linee per l’affettato in vaschetta. Oggi è l’unico produttore che mette in vaschetta i tre prodotti DOP piacentini.
Grazie a questa attenzione all’evoluzione dei consumi, per merito suo i salumi piacentini sono oggi conosciuti in ogni parte d’Italia.
In questi anni in azienda sono entrati la figlia Monica, che si occupa della parte amministrativa, e il genero Roberto, a capo della produzione. E Antonio continua a fare l’artigiano di questo mestiere, annusando, selezionando i salumi, conoscendo tutti i segreti di questo mestiere antico e salutando ogni suo dipendente ogni mattina, lui primo ad arrivare.

“Ciao sindaca, vieni a giocare con noi?”.


Ascoltato e visto con i miei occhi mentre passeggiavo con Manuela Amadei, Sindaco di Zibello, per le vie del paese. Lei mi stava illustrando le opere fatte, i progetti futuri, le difficoltà ad amministrare, con la forte carenza di contributi pubblici, che sono le stesse sia che si governi un paese di 1.910 abitanti che una grande città, quando improvvisa è arrivata la voce di un bimbetto di cinque anni che ha cambiato completamente il livello della conversazione.
Francamente mi importava poco del linguaggio tecnico-amministrativo del colloquio, pur apprezzando la competenza del Sindaco. Mi interessava il “cuore” di Manuela Amadei, le sue emozioni nello svolgere un ruolo importante come quello di essere la prima cittadina.
E quel bimbo c’è riuscito (dovrebbe firmarlo lui questo articolo). Da quel momento Manuela si è lasciata andare, ammettendo che quello è il risultato più bello del suo incarico, essere chiamata “sindaca” dai suoi bambini.
Ha raccontato, orgogliosa orgogliosissima, della mensa delle scuole degna di un grande ristorante di qualità, della cuoca Pia che adora fare quel lavoro, in quel posto. Dei suoi missili che, da quarant’anni, difendono i cieli d’Italia. Una base sotterranea sul suo territorio che diventa ulteriore elemento di sicurezza e tranquilla convivenza con gli abitanti.
Ha raccontato di essere cresciuta a “pane e politica”, con suo padre socialista, impegnato nella versione più nobile della politica, quella dove paghi di tasca tua il tuo impegno e il tuo ruolo.
«Mio papà pagava con i suoi soldi l’affitto della sezione e io non mi faccio mai rimborsare una missione dal Comune».
Si vive bene a Zibello, lo si vede dalle facce della gente che incontriamo, prima ancora che dagli attestati di Cittaslow e Città dei Sapori. Il Culatello ha portato benessere e turisti, il Po placa gli animi e probabilmente, con il costante timore di un’esondazione dove tutti devono fare la loro parte, mantiene alto lo spirito di solidarietà tra le persone.
La “sindaca” di questo clima tra le persone è contenta e il suo cruccio, ma anche il suo obiettivo, è quello di fare di più per l’aggregazione. Intanto ha aderito all’originale progetto messo in campo da Provincia e Diocesi, di riaprire gli oratori. «Da piccola, ricorda, il centro di aggregazione era il piazzale della chiesa, lì ci trovavamo tutti, con tutto il codazzo di primi amori e giochi e amicizie. Oggi questo non c’è più ma rimane il bisogno».
E poi vuole un centro sportivo, «non esiste che i miei cittadini debbano spostarsi per avere questi servizi. Mancano i soldi ma li troveremo anche per fare questo». E, conoscendola, in caso di rielezione non ci sono dubbi che ci riuscirà.

Il freddo è totale!


Un’alba umida, nebbiosa, proprio come la si immagina durante il rito del “far su” il maiale, come si dice nelle province padane a ridosso del Po. La condizione ideale per il rapido raffreddamento dell’animale appena ucciso. Un rito che si ripete da tempo immemore, che in gran parte è stato sostituito dalle tecniche modernissime della produzione industriale ma che, nelle campagne, ancora perdura per l’autoconsumo. Un tempo, nei giorni tra Novembre e Gennaio, le cascine accoglievano singolari migratori: erano i norcini esperti dell’uccisione del maiale, una tecnica raffinata, con mani sapienti nel massaggiare le carni, nell’insaccarle, nel sezionare i pezzi migliori.
E l’arrivo coincideva con una vera e propria festa, che iniziava e terminava con l’assaggio delle parti più fresche dell’animale. Fino a poco tempo fa se ne mangiava addirittura il sangue, mescolandolo a latte e brodo in parti uguali (o formaggio e uova, secondo il gusto), assieme alla sugna tagliata a dadini e ai ciccioli, fatti cuocere per almeno un’ora in un soffritto di cipolle e prezzemolo, condito con sale e spezie a piacere.
Oggi il sanguinaccio non è più in commercio ma, quando si svolge la festa, in alcune cascine i più robusti lo mangiano ancora.
Siamo arrivati in una cascina padana, tra la pianura e le prime colline, e già da lontano si vedevano enormi paioli fumanti che mischiavano il loro vapore con quello della nebbia, brusio di voci, rumori di ferraglia che precede il rito finale; quello che è cominciato con l’acquisto del maiale, la sua crescita in questi casi mai forzata, il sacrificio dell’uccisione e poi, magicamente, una sorta di rinascita che ne celebra, per i lunghi mesi a venire, il piacere che danno le sue carni.
Il “Cocu” è già al lavoro da tempo. Il suo soprannome che tradotto è un vezzeggiativo, il cocco, se lo porta appresso fin da ragazzo e non se ne ricorda l’origine; probabilmente era un ragazzino timido, affettuoso, simpatico, da lì il termine. I tratti del viso lo fanno ancora immaginare così, nonostante il lavoro che si è scelto quasi trent’anni fa e che oggi lo rende uno dei norcini più apprezzati e ricercati nell’area che sta tra Parma e Piacenza, cuore della tradizione norcina.
Il suo vero nome è Giancarlo Andreoli ed è un vero boss a cui tutti questa mattina fanno riferimento: ordini chiari, scanditi con determinazione ai suoi aiutanti che cambiano ad ogni cascina.
Il maiale è già stato ucciso quando noi siamo arrivati, ora lo stanno lavando con acqua bollente, togliendo peli ed ogni altra sporcizia, per poi appenderlo per lasciare che le sue carni si raffreddino al punto giusto.
Fino agli anni Sessanta i peli del maiale venivano conservati dalle razdore che li vendevano al pollivendolo ambulante che, a sua volta, li vendeva ai fabbricanti di spazzole: era una piccola fonte di guadagno per le proprie piccole spese personali.
La pulizia crea un effetto attorno di bianco lattiginoso che copre anche le poche parti del paesaggio che emergono dalla nebbia e dall’alba. Ora ci si riposa un attimo, con un corroborante bicchiere di vino, mentre il norcino racconta di maiali fantastici che hanno attraversato la sua vita. Anni di esperienza che potrebbero benissimo essere trasferiti in un libro di favole per bambini, mille volte più educativo dei mostri che popolano attualmente la letteratura per ragazzi.
Ora si procede alla parte più importante del rito: il maiale viene sollevato tramite un paranco, con la testa in giù ché non tocchi per terra, il norcino da questo momento sa di essere al centro dell’attenzione, il silenzio di pochi secondi è il segnale dell’ammirazione e dell’orgoglio dei proprietari del maiale per essersi aggiudicati il miglior norcino che c’è sulla piazza.
In pochi attimi si pratica il primo perfettissimo taglio, dall’alto verso il basso, dividendo l’animale in due mezzene identiche; vengono asportate le frattaglie che, fino a non molto tempo fa, venivano utilizzate per condire una pastasciutta corroborante, il primo piatto di una lunga serie che scandisce il rito del “far su” il maiale.
Poi le mezzene vengono portate su un grosso tavolo e lì comincia la perfezione geometrica dei tagli, prima i prosciutti o i culatelli, poi nell’ordine spalle, lardo, pancetta, coppa, lombate, costine, lonze, filetti.
Intanto sono messi a cuocere i grassi che si trasformano in seducenti ciccioli e il loro profumo invade tutta la campagna, irresistibile.
Il lavoro non si placa, tritacarne all’opera per fare salami e salsicce, luganega e investiture che verranno messe a cuocere di lì a poco per poi finire tagliate a fette in mezzo a due fragranti fette di pane fatto in casa per una colazione inimitabile.
Ad osservare il Cocu al lavoro vengono in mente I 110 modi di far vivande del Porco descritti da Vincenzo Tanara nel 1745; e la fame si fa scatenante, l’alba ormai è un vago ricordo, il freddo totale è stato placato dai tiepidissimi raggi del sole e da due robustissimi sandwich con l’investitura; la fine del lavoro è ormai vicina e coinciderà con una dispensa ricca che servirà per un anno intero alla famiglia proprietaria del maiale. Ritornato sotto altre spoglie a portare piacere e allegria nella casa che lo ha allevato.

Lucilla Meneghelli, un architetto per l’ambiente


Quando l’ho incontrata la prima volta, aveva vent’anni di meno e stava partecipando ad un corso di formazione di cui io ero il docente in fotografia. Emanava entusiasmo per ogni cosa che faceva, da una semplice foto di una finestra ricoperta di fregi in cotto del palazzo in cui poi avrebbe vissuto, alla realizzazione di un progetto di riqualificazione urbana oggetto della tesina finale del corso.
Con lei si muovevano altre tre ragazze, giovani laureate in architettura, che partecipavano con lo stesso entusiasmo a questa avventura. Per me fu un’esperienza tra le più significative del mio percorso professionale. Per loro l’inizio di un futuro che le ha portate su strade diverse. Ma Lucilla Meneghelli non ha perso una briciola di quell’entusiasmo di vent’anni fa.
Oggi è architetto “fatto e finito”, tra i più qualificati esperti e sostenitori della bioarchitettura, autorevole vicepresidente della Cooperativa di abitanti Piacenza 74, mamma e donna alla ricerca costante del buon motivo per cui vale la pena affrontare ogni giorno con spirito positivo.
La cosa più bella che ha fatto, al di là e al di fuori dei suoi successi professionali che si possono vedere viaggiando lenti tra i nuovi quartieri della terra piacentina, è un libro di favole dal titolo Didì cambia casa.
In quel libro l’architetto è diventato menestrello, una sorta di Branduardi dei bambini che, paradossalmente, coinvolge invece i grandi nel sogno che tutti noi abbiamo: muoverci, cambiare, restare incuriositi del mondo e delle persone e delle cose.
Fare l’architetto può voler dire restare ancorati alla propria terra, alle abitudini che si tramandano, utilizzare gli elementi tradizionali per creare qualcosa di innovativo. Non so quale sia veramente la parte che più appassiona Lucilla Meneghelli nelle cose che fa sul piano professionale. Di certo qualsiasi cosa faccia la fa comunque bene, sempre, con rigore misto a passione.
E quello che lei propone e persegue aiuta comunque l’ambiente in cui viviamo noi e dove cresceranno i bambini di oggi. Questo è un grande esempio di come a volte la qualità della vita non è solo una bella frase con cui ci si riempie la bocca.

Il Boscaccio


“E ascolto le storie che mi racconta il grande fiume, e la gente dice di me «Più diventa vecchio e più diventa svanito» Invece non è vero perché io sono sempre stato svanito, grazie a Dio.”Eccolo, il Giovannino Guareschi che, in questo anno del suo centenario di nascita, viene riappropriato dal territorio. Lo ritroviamo sulla copertina del Centro del Boscaccio, il museo dedicato a lui, che si trova nella torre campanaria di Diolo, la frazione di Soragna dove il “duomo” è senza campanile. O meglio è a qualche centinaio di metri dalla chiesa e le campane suonano azionando un telecomando. Prodigi della tecnologia in una terra dove tutto scorre lento, muovendosi ancora al ritmo del Mondo Piccolo di guareschiana memoria.In questa torre, dieci anni fa, Cesare Bertozzi, l’amico di Giovanni Guareschi, si è messo a pulire, scrostare, ridipingere, facendo prezioso aiuto della sua storia di muratore per ricavare il museo e dedicarlo a lui: lo scrittore che ha portato agli occhi del mondo questo lembo di terra e le sue storie.Un museo insolito, di cimeli poveri ma ricchi di umanità e di emozione: le copie dei giornali del tempo, le lettere autografe di Giovannino, le fotografie tra cui una bellissima di una barca con il telo per fare il cinema sul Po, una immensa carta geografica della Bassa dipinta da Bertozzi sulla parete dove lui stesso ci indica i luoghi, gli aneddoti, le case. Si respira a pieni polmoni il Mondo Piccolo, ci si sente addosso tutto l’umore della Bassa, ci si perde nei racconti e si resta stupiti davanti ad un libro degli ospiti che porta firme da tutto il mondo.Ma ciò che colpisce è che Cesare Bertozzi è identico a Giovannino Guareschi.«A Fontanelle la mia famiglia, quella dei Guareschi e quella dei Faraboli hanno più di trecento anni di storia – racconta il Bertozzi –. Un qualche legame magari c’era anche. I baffi gli ho tagliati quando, di ritorno dal militare, tutti mi dicevano che assomigliavo a Giovannino. Ma poi ho incontrato Caterina, mia moglie, e a lei i miei baffi piacevano da matti».Ora, attorno ai sessant’anni Cesare Bertozzi può finalmente mostrarli orgoglioso, senza timore di essere preso in giro, e dover sopportare quanti restano stupefatti dalla somiglianza. «A Parigi, quando siamo andati nel 1993, mi fermavano per strada e nelle piazze. Ma la soddisfazione di scoprire, grazie a questo, quanto conosciuto e amato fosse Giovannino mi ha fatto superare ogni disagio».E’ il legame con Guareschi che lo ha portato ad allestire il museo che ha aperto i battenti il primo maggio 1998, nel novantesimo anno della nascita. «Dieci anni prima con gli “amici” avevamo messo una targa sulla sua casa natale a Fontanelle – ricorda Cesare – Ma lascia stare, non ce la lasceranno mai, la romperanno, mi dicevano i miei amici. L’unico modo per saperlo è metterla, ribattevo io. La targa è ancora lì».Oggi più nessuno divide tra destra e sinistra le situazioni e neppure le persone. Oggi il Giovannino è apprezzato da tutti per la sua straordinaria e fulminante scrittura, per il modo quasi fisico di raccontare le cose e le persone.Non è un caso che proprio a Fontanelle, in una terra “rossa”, ancora molto “rossa”, sia stato aperto il museo ufficiale, altrettanto bello, ma le cose che si trovano da Cesare Bertozzi sono uniche.E’ emozionante leggere la lettera che Giovannino mandava da Cervia al suo dottore con il resoconto del suo stato di salute, pochi mesi prima della sua scomparsa: «…mi dicono che il mare c’è, e tanto mi basta» concludeva Guareschi.Oppure ascoltare Cesare che sostiene, a ragion veduta probabilmente, che l’ispirazione per i personaggi più noti della letteratura guareschiana, Peppone e Don Camillo, derivava da Giovanni Faraboli, sindacalista nato a Fontanelle, e da Don Natale Bernini della Fossa, una frazione di Fontanelle. Alle loro diatribe e alla loro straordinaria umanità si ispirò Giovannino Guareschi.«Giovanni era uomo tutto d’un pezzo, lo dimostra la sua vita, il carcere - racconta Cesare Bertozzi –. Ma anche minuscoli episodi, tra cui quello di una gita in barca sul Taro con i suoi amici. Ad un certo punto Giovannino fece fermare la barca, ordinando il rientro. «Se procediamo di un metro sono fuori dai confini e sono ancora ai domiciliari». I suoi amici consideravano ridicolo essere così ligi, allora lui minacciò di tuffarsi e tornare a nuoto. Questo era Giovannino Guareschi».Il rispetto delle persone, delle istituzioni, del paesaggio. Nel Mondo Piccolo girava così. Oggi da queste parti un po’ lo è ancora, funziona ancora la stretta di mano al posto delle scritture private.L’insegnamento di Guareschi dovrebbe essere divulgato obbligatoriamente nelle scuole, almeno del Mondo Piccolo.Cesare e la sua dolcissima moglie Caterina, nel loro microcosmo, hanno però fatto una grande cosa: hanno stampato, a loro spese, dei quaderni che descrivono alcuni itinerari del territorio della Bassa, riportando con la loro calligrafia di persone vissute, brani tratti dai libri di Guareschi.Attraverso quei quaderni il turista può scoprire, con puntigliosa perfezione, i luoghi del Mondo Piccolo, apprezzandone la qualità della vita.Mentre parliamo con Cesare due giovani turisti lasciano la loro dedica sul grande quaderno degli ospiti «tornare indietro nel tempo che io e Davide non abbiamo vissuto, con questo bellissimo museo è stato assaporato».E mentre chiacchieriamo la campana scocca le 18, azionata dal telecomando dal duomo a poche decine di metri. Prodigi della tecnologia in una terra dove tutto scorre lento, anche il rintocco delle campane.

Nulla si fa senza passione


“Silvia Allegri, insegnante.” Chissà se dieci anni fa si sarebbe presentata così, mettendo l’accento su ciò che più le interessava essere?! Studi classici, spinta dalla convinzione che l’insegnamento era il suo futuro, pochi anni di insegnamento, alcuni altri di gavetta giornalistica presso uno dei più antichi quotidiani locali.Ma poi, tra l’insegnamento e il piacere per la scrittura, in lei si è insinuata quella carica interiore che il filosofo Hegel meglio di ogni altro ha saputo rappresentare osservando che “nel mondo mai nulla di grande è stato fatto senza passione”.A questo penso mentre Silvia Allegri, oggi responsabile dei servizi culturali del Comune di Fidenza dove lavora dal 1999 iniziando come bibliotecaria, mi racconta la sua storia professionale, con un approccio vitale e decisamente coinvolgente che annulla quella qualifica, vagamente burocratica, che contraddistingue le persone che lavorano negli enti locali e che frappone una sorta di filtro tra l’operatore e l’utente. Con Silvia Allegri tutto questo non c’entra, e lei rappresenta in modo corale quella moltitudine di bravi dipendenti pubblici che, molto spesso, rischiano di essere sottovalutati, spesso proprio a causa di una classificazione in gergo burocratese. Ma si capisce subito che non è così, fin dal suo arrivo sotto i portici della residenza municipale: capelli raccolti in modo molto elegante come il resto del suo portamento, che denota uno stile non convenzionale e subito il racconto vero, quello che ci ha motivato all’intervista: la direzione artistica del Teatro Magnani, quel piccolo gioiello che sorge nel cuore di Fidenza, con i suoi quattrocento posti a sedere, rivestiti dal più classico dei velluti. Entrata nello staff del Comune di Fidenza «La mia fortuna è stata quella di aver lavorato con due “veri”assessori alla Cultura – racconta Silvia – rima Maria Pia Bariggi che oggi è assessore al Comune di Salsomaggiore, ed ora con Davide Vanicelli, con cui sto facendo un’esperienza lavorativa molto interessante».La cultura a Fidenza significa respirare a pieni polmoni quella sensazione tipica di questa parte di terra italiana, a volte un po’ onirica, che Silvia Allegri ben interpreta nella costruzione delle sue stagioni di prosa che tengono conto di un obiettivo principale: avvicinare i giovani al teatro. E il successo del cartellone in questi anni ne è una dimostrazione palese. Le prove generali delle produzioni liriche sempre riservate agli studenti che non la vivono come una giornata di “fuga” e poi una media dell’85% di posti occupati ad ogni rappresentazione dimostrano che il teatro non è al capolinea e che il tessuto culturale del territorio è notevolmente svecchiato. Che dire? La pubblica istruzione italiana ha perso un’insegnante, ma la cultura italiana ha guadagnato una persona che, con passione “hegeliana”, riesce a coinvolgerne altre decine e decine: il pubblico che ne apprezza le scelte.

Ferrara è magica..




..su questo non ci sono dubbi. Ma lo è ancora di più alle prime luci dell’alba quando in giro ci sono solo biciclette appoggiate ai muri, in attesa del giorno, e l’aria profuma intensamente di pane.
In quei minuti che precedono il rumore delle prime saracinesche che si alzano dai forni e dai bar sembra di vivere in un’altra epoca: quella rinascimentale di Messer Cristoforo da Messisbugo, scalco e di amministratore ducale presso la corte degli Estensi dal 1524 al 1548, luogo di arte e di delizie gastronomiche.
Da quell’epoca deriva il particolare pane ferrarese: la coppia, detta anche ciupeta. Le prime notizie risalgono al Carnevale del 1536 quando, ad un banchetto in onore del Duca di Ferrara, Messer Giglio presentò un pane ritorto.
Nel cuore di Ferrara, quello antico dei fondachi medievali e del ghetto ebraico, si possono vedere decine di finestre a pianterreno illuminate da luci al neon; sono i forni in cui ogni notte, da secoli, si ripete il rito della preparazione delle coppie ferraresi.
Silenzio e profumo sono gli ingredienti di questi luoghi.
Abbiamo bussato ad una di queste porte alle tre del mattino, quella del panificio Cappelli, uno dei panifici più conosciuti e amati dai ferraresi e dai numerosi turisti che, negli ultimi anni hanno scoperto Ferrara e il suo stile di vita.
Da oltre trent’anni i fratelli Bruno e Giorgio svolgono l’attività di panettieri, assieme ad uno staff di grande professionalità.
“Sono ormai trent’anni che faccio questo mestiere. – ci racconta Moreno, il capofornaio di origini piemontesi – Ho fatto il pane in molte parti d’Italia prima di arrivare a Ferrara. E’ un lavoro che ha visto pochi cambiamenti nel corso della sua storia, negli ultimi decenni la tecnologia ha alleviato la fatica ma il segreto per un buon pane restano le nostre mani.”
Le abbiamo osservate per tutta la notte le mani dei sei fornai che lavorano nel panificio: mani lisce, veloci nei movimenti, perfettamente in grado di eseguire qualsiasi composizione di pane ma probabilmente anche musicale.
“Ma non solo le mani sono lo strumento per fare un buon pane. - racconta Massimo, l’altro fornaio addetto alla cottura che, nel tempo libero del giorno svolge attività di volontariato – Un bravo fornaio deve sapere come affrontare il lavoro nel momento in cui esce di casa e vede com’è il tempo.”
Questa è una notte in cui si sovrappongono abitudini, consigli, proverbi patrimonio di quella saggezza artigianale tipicamente italiana che deriva dalle antiche corporazioni del Medioevo e del Rinascimento. Il lavoro procede secondo ritmi codificati, avendo ben chiaro che alle prime luci dell’alba tutto dovrà essere finito per soddisfare i palati dei ferraresi. Nel forno di Bruno e Giorgio Cappelli la coppia ferrarese si fa con “le madri”, come nel tempo antico, costituita da una base di aceto o mosto di vino, al posto dei lieviti, per far fermentare la farina.
Mani sapienti preparano l’impasto, con l’utilizzo esclusivo di olio extravergine di oliva, acqua, sale, farina 0, il lievito madre e un poco di lievito di birra. Dopo un riposo di circa venti minuti coperto da bianchi canovacci, l’impasto viene preso e lavorato dai fornai che si muovono in silenzio tra i macchinari e i tavoloni su cui in pochi minuti prendono forma le coppie ferraresi.
La sfoglia viene divisa in esagoni che vengono velocemente arrotolati e poi pressati con il pollice al centro, legati tra loro a forma di nastro nel corpo centrale; le estremità sono ritorte (come anticamente veniva chiamato questo pane) in modo da formare un ventaglio di quattro corna chiamate ventagli.
L’abilità dei fornai di Cappelli sta proprio nell’esecuzione manuale di queste operazioni che danno vita a piccolissimi pani che sembrano oggetti da design. Una volta infornati per circa venti-trenta minuti aumentano il loro volume arrivando ad un peso di circa 80 grammi, con venature tendenti al biondo e un aroma fragrante che pervade il forno, la bottega e le strade attorno.
Uno strano pane la coppia ferrarese, con curiose simbologie a carattere sessuale come i quattro rilievi al centro che ricordano i seni di donna o l’attaccatura delle due mezze coppie che ricorda la forma dell’organo sessuale femminile.
“Non solo simboli di origine sessuale ma anche antiche credenze accompagnano la coppia ferrarese – ci raccontano i fornai – come quella per cui non va mai servita in tavola capovolta perché tutto questo dispiacerebbe molto alla Madonna.”
E’ quasi mattina, il pane è in cottura e l’altro reparto, quello della pasticceria e della gastronomia, sta sfornando ciambelle, pampapato, crostoli e soffici croissant. Alberto e Antonella sono i pasticceri con cui ci mettiamo a conversare sulle ricette tipiche ferraresi.
“Ma il pasticcio alla ferrarese lo fate anche voi?” chiedo ingolosito alle cinque del mattino.
“Certo, se vuoi te lo prepariamo in un paio d’ore per portartelo a casa ben caldo e pronto per il pranzo.” E chi resiste a questa proposta alle cinque del mattino?
Il tempo di uscire per una passeggiata nei fondachi medievali, di sentire il rumore delle saracinesche dei fornai che aprono le botteghe in cui le coppie ferraresi sono in bell’ordine pronte per essere acquistate, di vedere le prime biciclette che cominciano ad animare questa meravigliosa città, a ragione eletta dall’UNESCO patrimonio mondiale dell’umanità, e al ritorno salutare i fornai di Cappelli che hanno garantito, per l’ennesima notte, il profumo alla città.
Un profumo, quello della coppia e del pasticcio alla ferrarese, che invade il viaggio di ritorno scatenando inconfessabili desideri.

Donata Meneghelli, insegnare e scrivere è il tramite…


“Il primo articolo di rilievo l’ho scritto per il Nuovo Giornale, il settimanale della Diocesi di Piacenza, ed era un’inchiesta sui nuovi programmi didattici di storia. Intervistai molte persone che ho poi reincontrato in diversi momenti professionali e culturali, come Carla Antonini, direttrice dell’Istituto Storico Piacentino, o Mauro Monti, oggi preside del Liceo Scientifico di Fiorenzuola, dove insegno» .
Inizia così la conversazione con Donata Meneghelli, giornalista e insegnante e prosegue con il racconto del suo primo articolo fuori dai confini della sua città dove già scriveva sul giornale parrocchiale o nelle corrispondenze dal cortile di casa. Queste ultime erano il suo gioco preferito da bambina, scrivere di ciò che accadeva attorno a sé, o fare le cronache televisive davanti allo specchio. Del resto, come dice lei, “crescere in una bella famiglia di sette persone è un’ottima palestra di comunicazione”.
Invece il suo primo articolo “fuoriporta” fu un bel quattrocento battute dedicate a “Domani a Fiorenzuola ci sono le cresime”. Glielo aveva affidato lo storico corrispondente locale di Fiorenzuola, Franco Villani.
Oggi Donata è un personaggio nella sua città, Fiorenzuola, anche se lei preferisce, senza falsa modestia, definirsi un tramite. Per lei l’insegnamento e il giornalismo infatti devono avere questa funzione: essere tramite del sapere di altri e del pensiero di altri.
Ma il suo modo di scrivere, che ben conosco, e quello di insegnare, che conosco per interposta persona e cioè attraverso l’opinione che hanno molti giovani a cui lei insegna, non sono solo un tramite ma l’interpretazione e la lettura intelligente della realtà.
Donata ha i piedi piantati a terra, non è troppo sognatrice o idealista, non è affamata del potere, piccolo o grande che sia, che può dare il suo mestiere. E’ legata, profondamente legata a molte delle storie che lei ha raccontato nel corso degli anni, alla sua città e alla sua terra, e adora i suoi lavori.
E’ fantastico sentir definire i giovani, da una come lei che li frequenta ogni giorno, “interlocutori autorevoli, ansiosi di sapere e di ascoltare”, quanti di noi hanno questa opinione così chiara e definita?
“Fare la giornalista è la possibilità privilegiata di conoscere le persone, fare incontri straordinari, crescere dentro. – afferma - Oppure frequentare persone che hanno avuto un ruolo importante nella mia vita, come Laura Torricella e Carla Danani, che ebbi come insegnanti e che oggi mi ritrovo ad intervistare spesso per il loro ruolo pubblico. O ragazzi che vogliono diventare giornalisti e che sono stati miei alunni”. Chissà se ha altre ambizioni, oltre al ruolo di corrispondente dalla seconda città della provincia? Ma non glielo chiedo visto l’entusiasmo con cui racconta il suo lavoro di ogni giorno

Il Brisighello, un olio straordinario


E’ una di quelle storie dell’agricoltura italiana che passano da un’idea di assistenzialismo e di povertà ad un progetto di eccellenza e redditività economica, che comportano fatica, che modificano abitudini, che trasformano il modo di pensare. Ma di cui, ad un certo punto, ci si accorge che ne valeva la pena.
Una data, quella del 1975, e poi un’altra ancora, quella del 1984, ed infine l’ultima, nel 1996, sono le tappe salienti della storia dell’olio extravergine di oliva di Brisighella, un microcosmo sulle prime colline romagnole dominato da 100.000 piante di ulivo, alcune secolari come l’abitudine all’olio in questa zona d’Italia. Ma le date vedono anche gli uomini protagonisti, gli oltre cento piccoli agricoltori del territorio e due persone caparbie: Nerio Raccagni e Franco Spada.
Nerio Raccagni, ristoratore in quel di Brisighella, nel 1975 convinse gli agricoltori soci di CAB, Cooperativa Agricola Brisighellese, a produrre un olio monovarietale. Un olio monovarietale, detto per inciso, se non ha grande stoffa non potrà mai essere un grande prodotto. Ma l’oliva Nostrana di Brisighella ha superato ogni selezione naturale, compresa quella di tremende gelate, dimostrando la sua grande stoffa.
Fino a quel momento l’olio era fatto per l’autoconsumo, tanto poco redditizio era il coltivarlo e trasformarlo.
Nerio, socio della cooperativa, si inventò modi originali per farlo conoscere sul mercato attraverso la sua rete di relazioni con il mondo della ristorazione. Uno in particolare colpì la curiosità dei ristoratori più attenti: l’olio extravergine d’oliva di Brisighella veniva imbottigliato ed etichettato con un cartiglio certificato dal notaio, dove erano indicati il nome del podere, il giorno della molitura, tutti gli orari dei vari procedimenti di produzione con le firme di tutti coloro che le attuavano.
Forse il primo esempio di tracciabilità di filiera. E, soprattutto, il prezzo a cui veniva venduto, 18.000 lire a bottiglia, ne garantivano la qualità. In quegli anni, dove la cultura dell’olio doveva ancora raggiungere la conquista della dicitura “extravergine d’oliva”, questa era una vera e propria rivoluzione. Proseguita nel 1984 dall’altro grande uomo dell’olio di Brisighella: Franco Spada, allora poco più che trentenne, presidente della Cooperativa dal 1981, incarico mantenuto fino al 2005, quando diventò presidente del Consorzio Produttori Olio extravergine di Brisighella DOIP e dell’ARPO, Associazione regionale produttori d’olio.
Con la determinazione del romagnolo verace Franco Spada si presentò nel 1984 davanti al consiglio della cooperativa con due idee; la prima era quella di abbassare il compenso agli agricoltori per le olive di bassa qualità conferite alla cooperativa, fino al punto di rendere improduttiva questa strada, alzando in compenso il costo di quelle di ottima qualità; la seconda era quella di sostituire il sistema di produzione che allora vantava secoli di storia: quello a pressa.
Uno scossone ad abitudini consolidate senza che gli agricoltori ne vedessero gli immediati e tangibili benefici.
Si stavano vedendo i primi timidi risultati della commercializzazione dell’olio che già venivano chiesti sforzi ulteriori sia in termini economici che di risorse umane; l’anno successivo, il 1985, fu anche l’anno della più grande gelata dal dopoguerra. Gli ulivi di varietà internazionale furono praticamente distrutti, la varietà locale, quella Nostrana di Brisighella, subì gravi danni ma ritornò in pochi anni a riprodurre: nel 1985 si raccolsero 160 Kg. di olio e quattro anni dopo si ritornò ai 4.200 quintali di olive raccolte.
Ma sono questi i momenti dove la passione per il proprio lavoro e l’amore per la propria terra diventano fondamentali e questi due elementi hanno contrassegnato tutta l’esistenza di Franco Spada; sua anche la capacità di trasferirli ai soci della Cooperativa, quegli agricoltori usciti da anni di mezzadria dove l’olio era semplicemente il prodotto di scambio tra proprietario e coltivatore.
Con questo spirito e con il mantenimento della strategia commerciale che dava all’Olio di Brisighella la patente di qualità che si arriva al 1996, il primo anno della Denominazione d’Origine Europea per i prodotti alimentari.
«In effetti mi posi il problema se avviare o meno questa richiesta. – racconta Franco Spada – Significava chiedere ai soci un altro sforzo, la riduzione del loro margine di guadagno perchè la DOP incide sul costo della bottiglia. Ma la nostra autocertificazione sarebbe venuta meno di fronte ad un marchio di quella portata e allora convinsi i soci a fare il grande passo». Nacque così il Brisighello, il primo olio DOP d’Italia.
Il destino colpisce questo prodotto ad ogni cambiamento. L’anno successivo, quello in cui si sarebbe potuto immettere sul mercato l’Olio con il marchio DOP, le cantine del CAB vennero depredate, tutto l’olio prodotto e conservato nelle cisterne pronto per l’imbottigliamento fu rubato in una notte.
«Fu un duro colpo – ricorda Franco Spada – ma gli agricoltori di queste terre non si lasciano scoraggiare e l’olio venne immesso sul mercato l’anno successivo, con una grande accoglienza tra il pubblico di fedelissimi, ristoratori e consumatori, che non ha mai abbandonato l’utilizzo del nostro olio da quando lo hanno scoperto».
Ma qual è la caratteristica di un buon olio? «La bassa, bassissima acidità, il controllo del processo produttivo, la cura nella sua conservazione. – conclude Franco Spada – Il Brisighello non supera mai lo 0,50 di acidità, è sottoposto ad analisi severissime, viene imbottigliato poche ore prima di essere distribuito. Per noi la qualità non si sottopone a nessun compromesso».
Un olio buono, come la terra che lo prepara, come gli uomini che lo producono.

Massimo Spigaroli, l'artigiano del gusto


La prima volta che l’ho incontrato, dieci anni fa, mi ha guardato con la diffidenza che hanno quelli che lavorano ad un’idea geniale e temono che il primo sconosciuto gliela porti via. Ma questa diffidenza è durata pochi minuti e da allora è nata una solida robusta stima e amicizia.
E da quell’idea geniale, apparentemente irrealizzabile, oggi un’intero territorio ne trae i benefici.
Siamo nella Bassa parmense, in quella zona molto umida e un tempo molto depressa, dove si produce il più straordinario dei salumi: il Culatello di Zibello.
Dieci anni fa non se ne trovavano che pochi pezzi, la grande industria aveva fatto man bassa delle cosce di maiale per farne prosciutti, si faticava meno a venderli alle grandi imprese che mettersi pazientemente, in ogni mattino d’inverno, ad aprire e chiudere finestre di vecchie cantine per fare entrare nebbia ed umidità; requisiti indispensabili per un buon culatello.
Ed è proprio in quegli anni che Massimo Spigaroli ha deciso di provarci. Dapprima ha riunito una decina di piccoli produttori in un’associazione, con loro ha avviato il percorso per ottenere la DOP avuta nel 1996. Poi ha dato vita al Consorzio di tutela ed oggi, tra i quattordici produttori del Consorzio, i culatelli sono passati da 600 a 20.000. Tutti indiscutibilmente buoni!
Massimo è uno chef, un produttore, un agricoltore, ma soprattutto un leader tra la sua gente. Nel 2000, in occasione dell’ultima esondazione del Grande Fiume, fu lui a chiamare a raccolta gli abitanti per difendere le case e le persone a ridosso degli argini. E solo dopo aver fatto questo si occupò di portare in salvo i suoi salumi, riuscendoci perché a loro volta le persone lo aiutarono.
“Durante le terribili giornate del 17/18 Ottobre 2000 in tanti davano per spacciato l'abitato di Polesine Parmense. – racconta Massimo - Gli unici sicuri del fatto che ancora una volta il Grande Fiume si sarebbe fermato al momento giusto erano i nativi del Paese. E così è stato! L'argine maestro pur con tutti i problemi che l'accompagnano,non è stato varcato. Se fosse stato necessario noi tutti si sarebbe lavorato per giorni e giorni a riempire sacchetti di sabbia senza mai fermarsi.
Ci si diceva sugli argini:nel 2000 non è possibile che l'acqua abbia la meglio sulle nostre capacità e sulla nostra ostinazione! E poi.il Po è nostro amico e gli amici non tradiscono mai!! Nel 1951 i nostri vecchi riuscirono a salvare le proprie case in condizioni ambientali e di attrezzature ben più critiche. E noi avremmo dovuto cedere? Mai e poi mai..”
Ma questa è solo una delle tante piccole grandi storie che contraddistinguono la vita e il lavoro di Massimo. Ed è la conferma di come la passione per il proprio lavoro porti a superare ogni difficoltà; un atteggiamento che è tipico degli artigiani, e in quelli del gusto ancora di più.
Fare un buon culatello non è cosa facile. Intanto bisogna selezionare la razza più idonea e Massimo, dopo aver provato a tenere allo stato semibrado, nei suoi boschi di pioppo lungo il Po, diverse specie di maiali, da quello dei Nebrodi alla cinta senese, dal suino pesante alle razze olandesi, ha deciso che il maiale se lo sarebbe fatto lui.
Ha recuperato una razza, il Nero di Parma, ormai in estinzione, ha allevato due cuccioli alcuni anni fa ed ora ha una grande famiglia di maiali neri.
“Mentre cercavo tracce del maiale nero il verdetto dei più era unanime: “razza completamente estinta”, quindi reperimento impossibile! – racconta Massimo Spigaroli - Però un giorno il dott. Pietro Tanzi, originario di Rocca di Varsi, un paesino arroccato sull’Appennino, mi racconta di una foto della fine degli anni quaranta, che ritraeva sua nonna insieme ad una scrofa nera coi suoi maialini. Comincio allora la “caccia”, mi precipito sul luogo, ma irrimediabilmente trovo i soliti suini bianchi e magri. Allora scendo le colline arrivando in Toscana, lì la razza nera la conoscono in molti, ma nessuno ha un esemplare da farmi vedere e tanto meno da vendere. Estendo le ricerche alle Marche, all’Abruzzo ed al Molise ma niente da fare! Ricevuta qualche “dritta” proveniente da esperti del settore, decido di dare un’occhiata anche in Spagna, mi dirigo a sud destinazione Jabugo terra del mitico “pata negra”, il prosciutto più famoso al mondo, ed in quella zona dai monti brulicanti di maiali al pascolo, acquisto tutti i libri sull’argomento.
Dalle foto e dai riscontri su animali reali scopro che sono simili ai neri dei miei racconti ma non hanno le cosiddette “tettole”: Su informazione di un allevatore locale apprendo che nella penisola iberica di razze nere ce ne sono ben dodici con diverse varianti. Non solo, il mio interlocutore mi dice di ricordare che una di esse ha le famose protuberanze… è quella che vado cercando! Lavorando con la mente riesco anche a capire il motivo dell’antica presenza di questa razza spagnola nel solo territorio di Parma e Piacenza, i Borbone! Sì, erano stati proprio i nobili iberici, per molti anni signori indiscussi delle due province, ad importare questi maiali ritenendoli migliori di quelli già presenti.”
Da quelle carni ricava il suo culatello migliore, quello che si trova nelle boutiques gastronomiche di Milano, Roma e Parigi; quello delle tavole dei grandi chef come Fulvio Pierangelini o Antonio Santini; quello del suo ristorante Cavallino Bianco, dove si vive tutto e fino in fondo lo stile di vita della Bassa.
“Quando assaggio i culatelli, le spalle,i salami e il lardo salato, tutti ottenuti secondo le vecchie tradizioni, quasi mi commuovo. Sono meravigliosi! I profumi e i sapori che sprigionano hanno il potere di farmi tornare bambino! L’esperimento è perfettamente riuscito, i miei sforzi e il mio tempo non sono stati buttati via.” conclude Massimo. Ed ora, da quando dieci anni fa ebbe l’idea geniale, i suoi culatelli sono a stagionare nelle cantine del Castello dei Pallavicino, dove Massimo andava a giocare da bambino ed oggi ne è il proprietario, assieme a suo fratello Luciano. Un luogo di delizie dove, dopo aver assaporato il gusto sublime dei salumi di Massimo, si può anche riposare in una delle sei suite ricavate nelle antiche stanze, cullati dal silenzio maestoso del Grande Fiume.