domenica 14 ottobre 2012

Osare e sognare


“La tradizione rende l’orecchio curioso”. Lo sostiene Teresa Covaceuszach, cuoca e proprietaria insieme al marito Franco Simoncig, della trattoria Sale e Pepe di Stregna, un minuscolo borgo a pochi minuti dal confine con la Slovenia e, proprio questa linea di confine fa dire a Teresa un’altra importante verità: “Avere una lingua in più, una cultura in più, arricchisce”.
Teresa Covaceuszach ha abbandonato, venticinque anni fa, un lavoro di ufficio ed è ritornata nella sua terra: ha bussato alle porte delle abitazioni e si è fatta raccontare dalle donne del paese, ormai anziane, leggende e ricette. Poi le ha trasferite nel suo locale, già esistente e adibito ad osteria del paese, unico ritrovo sociale che ha mantenuto la sua funzione. Ha piantato l’orto da cui ricava l’essenza della sua cucina. Ha adottato una mucca dal suo amico Rino di Montefosca per non perdere quel latte e quella ricotta. Bisogna andarci apposta a Stregna, così come bisogna andare apposta in ognuno dei luoghi, dei ristoranti, delle cantine e degli artigiani del gusto che costellano il Friuli Venezia Giulia, fuori dai grandi itinerari del turismo di massa e ricchi di tutto quello che contribuisce al piacere della vita. Piccole e grandi realtà gastronomiche che, per farsi conoscere ancora di più, hanno deciso di riunirsi in un consorzio: Friuli Venezia Giulia Via dei Sapori.
Venti ristoratori attorno a cui si sono coagulate ventidue cantine, e un ricco manipolo di artigiani del gusto. Questa è la composizione che si è formata attorno al progetto guidato da Walter Filipputi, giornalista, sommelier, docente universitario e scrittore di storie del Friuli Venezia Giulia: “Bisogna osare e bisogna sognare. Lo dico sempre anche ai miei studenti. Qui lo abbiamo fatto, grazie a persone intelligenti e imprenditori veri che si sono scelti loro, chi ci sta ci sta, coagulandosi attorno ad un’idea: il territorio come base per la fornitura delle nostre materie prime. Un patrimonio che non deve essere disperso. Sommando quanto appena detto ci dà la misura del progetto Friuli Venezia Giulia Via dei Sapori che, in sintesi, significa dare il proprio contributo alla crescita del territorio d'appartenenza affinché possano essere valorizzate tutte le sue componenti che possono concorrere al successo del proprio lavoro. Per farlo serviva una mentalità non individualista, ma capace di fare sistema al fine di raggiungere la massa critica, anche finanziaria, per varare e sviluppare progetti di un certo peso ed efficacia”.

 
Gli umori antichi del mediterraneo

Il risultato è un gruppo fortemente coeso che organizza eventi di presentazione di quello che offre questa regione sotto il profilo gastronomico ed enologico. Lo si scopre sfogliando i 2,7 chilogrammi di un libro che racconta e guida alla scoperta: “Artefici di tanto ben di Dio sono centinaia di eroi silenziosi, come li chiama Walter Filipputi. Uomini e donne a cui appuntare sul petto la medaglia al valor patrio per la dedizione con la quale si applicano per custodire e trasmettere il meglio dei prodotti che fanno di un territorio una sapida civiltà” scrive il sociologo Ulderico Bernardi nell’introduzione al libro I solisti del gusto.
Una sintesi perfetta di come ognuno di loro contribuisca a valorizzare una terra sospesa tra l’Adriatico e i Carpazi che, ovunque ti giri, sembra assorbire gli umori antichi del Mediterraneo, come riescono a trasmettere, con la loro cucina, i fratelli Max e Gianluca Sabinot, titolari di uno dei ristoranti storici di Udine: il Vitello d’Oro. Lasciatevi andare alla Verticale di tonno rosso, servita in otto cucchiai che il cameriere in sala vi consiglierà di mangiare assaggiandone anche “uno ogni mezz’ora ma in un solo boccone”: olio e limone,avocado, olive taggiasche, capperi, aceto balsamico prodotto in famiglia, leggermente scottato, cren e wasabi sono le otto sublimi variazioni.
“Questo è uno dei piatti che non riesco a togliere mai dal menu insieme alla piovra e al risotto scampi & scampi” spiega lo chef Max che, oltre alla carta, propone due menu degustazione con il meglio delle proposte di cucina. Agli abbinamenti pensa Gianluca che, pur in un periodo di contrazione generale del consumo di vino, ha pensato ad una carta che racchiude 100 etichette del territorio, 64 tra nazionali e francesi, una selezione di alto livello di champagne e bollicine italiane.
“Negli ultimi due anni – racconta Gianluca – abbiamo riportato la carta alla realtà del mercato. Non hanno più senso le carte monumentali da 400 e più etichette. La nostra è una selezione che punta a valorizzare molto gli abbinamenti con le straordinarie materie prime che il territorio ci offre, compresi i vini stessi di questa regione”.
E via da lì basta salire a San Daniele per scoprire come Carlo Dall’Ava ha saputo creare un centro di assoluta eccellenza per il Prosciutto di San Daniele Dop, a cui ha affiancato una selezione rigorosa di prosciutti ottenuti da razze spagnole, ungheresi e siciliane dell’altopiano dei Nebrodi. Accanto all’azienda una prosciutteria, con annesso negozio di specialità alimentari, primo di una serie di prosciutterie a marchio Dok Dall’Ava che sono state aperte negli ultimi due anni con grande soddisfazione di consumatori golosi.
“Tutto nasce dal desiderio di riportare in tavola il mangiare di casa” afferma Carlo Dall’Ava, con una certa premonizione su dove si sta orientando oggi la ristorazione.
Poco distante c’è Friultrota, un allevamento non intensivo, dove il titolare Mauro Pighin riassume in poche parole la filosofia che sta alla base di una gamma di prodotti che sempre più spesso fanno la felicità della ristorazione, per le caratteristiche di alta qualità e servizio che offrono: “Una trota per essere buona deve essere una buona trota” afferma il titolare, confermando la semplicità come valore di questa terra di confine.


Pensieri e gesti semplici e puliti

È un refrain, quello della semplicità di pensiero che in realtà nasconde un profondo attaccamento all’idea del naturalmente buono, che ritroviamo nelle parole di Giovanni Collavini, produttore friulano tra i più famosi soprattutto all’estero: “Ogni nostro processo produttivo parte dal fatto che se l’uva è buona il vino è buono”. Con questo principio i Collavini, produttori dal 1896, hanno sviluppato un’azienda che oggi esporta in 35 paesi del mondo.
Una delle belle scoperte che si fanno in Friuli, grazie alla rete che il Consorzio di Walter Filiputti ha creato, sono le carte dei vini dei ristoranti che riservano il posto d’onore ai vini del territorio. Anche quando, come nel caso del ristorante Da Nando a Mortegliano, la cantina custodisce un patrimonio di 130.000 bottiglie di ogni parte del mondo.
Ma Ivan Uanetto al suo Friuli dedica un legame totale, a partire dai piatti che parlano solo di stagionalità e territorio, raccontati da lui e dal suo staff con un dettaglio che fa venir voglia di proseguire all’infinito il viaggio alla scoperta dei prodotti e delle persone.
“Se copiamo o rincorriamo le mode non riusciremo mai a distinguerci. Mentre se valorizziamo ciò che abbiamo intorno, se diamo un valore anche alla povertà in cui siamo cresciuti, fatta di cucina delle erbe o di storie come quelle della Latteria turnaria di questo paese che resiste dal 1915, ecco che conquistiamo quella unicità che ci consente di avere un posto privilegiato in questo mondo globale” sostiene Ivan Uanetto.
Per convincersene basta passeggiare attorno alla Locanda del Castello di Buttrio, dove nel parco, nelle camere, nei vigneti si respira un’inconsueta armonia fatta di colori leggeri, eleganza non ostentata, eccellenti vini. Tutto merito di Alessandra Felluga che, come dice Paola Antonaci, responsabile commerciale dell’azienda, “ha voluto creare un luogo dove il piacere della conversazione all’ombra dei gelsi fa perdere la dimensione del tempo”. Vero!
 
Luigi Franchi
pubblicato su Catering-Ristorazione e consumi fuori casa settembre-ottobre 2012

mercoledì 30 maggio 2012

Gualtiero Marchesi: il maestro è colui che insegna con l'esempio


Di Gualtiero Marchesi si è forse detto e scritto tutto ma con la tendenza a dire cosa ha fatto, ricordandone la fama internazionale e i celebratissimi piatti, oppure esprimendo pareri controversi su alcune scelte come, ad esempio, l’ultima che lo ha visto collaborare con la catena McDonald’s. Parlare con lui però è sempre un’altra cosa: “diversamente utile” per parafrasare uno dei suoi neologismi preferiti.
Difficile, ad esempio, che l’intervista proceda secondo binari classici, si chiede di cucina e ci si ritrova a disquisire su Massimo Mila, il musicologo autore della Storia della musica, oppure si parla di paesaggio ed ecco che esce l’aneddoto di un piatto ispirato da una montagna. Quella che segue è quindi un tentativo di mettere ordine in una lunga conversazione da cui esce il ritratto di un pimpante ottuagenario proiettato verso un futuro di ricerca e semplicità.
Si comincia… Cosa la spinse a viaggiare, scoprire, capire cosa succedeva negli anni ’50 nella cucina internazionale e italiana?
“Sono nato figlio di albergatori e ristoratori con una iniziale scarsa voglia di studiare, ancor meno di seguire la strada dei miei genitori. Fu mia madre che, con uno spettacolare colpo d’ala, mi spedì a 17 anni al Kulm Hotel di St. Moritz. Mi sono entusiasmato di quello stile e, in quel momento, mi sono reso conto dell’ambiente straordinario in cui ero nato. Fu così che decisi di iscrivermi alla scuola alberghiera a Lucerna. Alla scuola seguirono molti anni al Mercato, l’albergo dei miei genitori, dove passavano tutti, Fellini, Visconti, Testori che definì il nostro ristorante tra i migliori degli alberghi in Europa. Poi l’incontro con mia moglie che mi ha appassionato alla musica, con lei ho cominciato a studiare il piano. Sono state queste due donne che hanno influito sulla mia formazione e vita. Il passaggio successivo fu la Francia e l’incontro con Troisgros, da cui me ne andai solo dopo aver capito. Capito cosa? Mi disse. Vedrai, fu la mia risposta. Infine il Bonvesin della Riva e tutto il resto”.
Il resto è noto: primo tre stelle in Italia, piatti entrati nella storia, Albereta, il rifiuto di essere giudicato dalle guide, il ruolo di Rettore ad ALMA, la Scuola di Alta Cucina…
“Dove voglio essere sfruttato meglio. Vedi, ALMA ha fatto consulenza in molti paesi, con grande successo commerciale ma ora bisogna creare futuro. Ormai quella è la mia scuola, ma in tanti mi chiedono ma lei cosa c’entra qua? Non serve che io faccia una lezione ogni tanto o presenzi agli eventi. Mi piacerebbe invece ospitare lì la mia Fondazione che vuol fare formazione su arte, cucina e musica. Io sono in piena fase creativa, devo vedere delle cose, non puoi stare troppo lontano dal mondo: Marrakech, Shangai, Londra e New York saranno le mie prossime mete. Ed è proprio la mia curiosità che vorrei mettere a disposizione di ALMA”.
Albino Ivardi Ganapini, in altra parte della rivista, afferma che è grazie a lei che ALMA ha potuto diventare ciò che oggi è, perché lei ha chiesto di coinvolgere i migliori chef rappresentanti delle cucine dei territori italiani. Come si definisce una buona cucina?
“La cucina è prima di tutto una scienza, qualcuno ci ha definiti chimici dell’intuizione, sta lì la coniugazione perfetta tra scienza ed arte. Bach diceva ‘non è importante come tocchi il tasto, perché io ho già fatto tutto nella composizione’. E il piatto è la stessa cosa, prima c’è la composizione, la conoscenza della materia. ‘La musica non sono solo suoni, sono tempo e memoria’  scriveva Massimo Mila. Lo si può applicare anche alla cucina”.
Il parallelo con la musica è una costante del pensiero di Gualtiero Marchesi. Non potrebbe essere altrimenti, visto che moglie, figlie e nipoti vivono nella musica. Su questo costruisce esempi infiniti.
“Uno riguarda mio nipote Bartolomeo Dandolo Marchesi che a 14 anni mi disse: ‘nonno che bello ho suonato in orchestra’. Pensa a quanto allenamento, dedizione e passione ci sta dietro ad un’orchestra: è così, deve essere così anche in cucina: poi c’è il caso che diventi cuoco ma non è detto. Ora invece tutti si ritengono già dei compositori, ma i creativi in realtà sono solo i bambini. Se facessero un Masterchef per bambini allora sì, accetterei di fare la giuria”.
La scelta della materia prima: oggi va di moda andare alla ricerca del prodotto di nicchia. Quanto vale questo concetto per lei che ha lavorato spesso in controtendenza, anche per l’industria?
“Quando stavo a Milano tutte le mattine andavo al mercato, avevo fatto fare un punzone per segnare le lombate di 40/50 chili che selezionavo e poi facevo frollare 40/50 giorni. Ma la buona materia prima è anche altrove. Ti racconto una cosa: nell’ottobre 2002, quando l’Accademia Internazionale della Gastronomia mi assegna il Grand Prix “Mémoire et Gratitude”a Lione, al mattino esco e nell’edicola francese campeggia un giornale con la foto di Bernard Loiseau (lo chef più amato di Francia, insieme a Paul Bocuse ndr) con sotto il titolo ‘Il futuro della cucina è nell’industria’ ed è vero! In questo momento però il problema è un altro: abbiamo il guaio che il ristorante soffre del rapporto con il cliente perché manca l’oste, quello che sta attento ai bisogni del cliente”.
Come si risolve?
“Da me non succede perché abbiamo tolto il giochino. In sala si conclude la preparazione del piatto. Se ti faccio la salsa necessaria al piatto, che la metta il cuoco o il maitre di sala è lo stesso. In tal modo lo invogli a raccontare. Vengo dall’esperienza del grande albergo, dove c’era di tutto. Quando ero ragazzo c’era il maitre de plaisir, in grado di fare tutto, anche andare giocare a tennis con il cliente. La scuola di ALMA dovrebbe avere anche questo spirito”.
Cosa concorre a fare l’estetica nel piatto?
“ Prima mettiamoci d’accordo su cos’è l’estetica. Per me l’estetica comprende l’etica. Mia figlia dice ‘il bello puro è il vero buono’. A prescindere. Tempo fa, ad una cena, venne portato in tavola un risotto primavera, era talmente bello che affermai ‘potrei persino dirvi che è perfetto anche di sale talmente è bello’. La verità della forma è l’unica strada per eliminare l’inganno dell’apparenza, dice spesso mia figlia Paola e quelle parole mi sono tornate in mente sul lago d’Iseo, nei pressi di Lovere, dove c’è un piccolo spazio che guarda una montagna: ‘Così bello da sembrare finto… ed essere vero’ c’era scritto su un libro in pietra posato davanti al panorama, lo aveva scritto Raul Montanari. A quella montagna, così perfetta, mi sono ispirato per fare un piatto che ho in carta al Marchesino: la tartare, preparata in uno stampo a piramide che ho fatto fare appositamente, intorno la salsa. Così ho tirato fuori la materia”.
Come costruisce il menu?
“Quando faccio il menu degustazione lo penso con i tempi giusti: quanto deve frollare la carne, quanto tempo deve passare tra una portata e l’altra, vado a fare la spesa in funzione di questo. E mi ispiro spesso al kaiseki giapponese: laggiù lo fanno i grandi chef anziani ed è basato sulla presentazione per ammirare la maestria di chi prepara il piatto, perché sa sistemare e presentare i cibi con grande eleganza e sofisticatezza. Nulla viene messo a casaccio. La posizione di ogni singolo elemento viene attentamente studiata, in modo che il risultato finale sia un magnifico intreccio armonico di colori, forme e sapori. Questo mi ha portato ad ideare Marchesi Arte, un menu degustazione che è anche scuola di cucina fatta in sala. Poi ho il menu ‘meno cucina’, estratto dalla gran carta. Infine quattro  menu: intorno allo spaghetto, intorno al riso, tutta pasta e le paste farcite”.
Semplicità e leggerezza sono le sue parole preferite…
“Io sono italiano, uso la materia nostra, non sono di scuola francese, ciò che ho visto non è cucina francese, è internazionale. Ad esempio anni fa raccontai a Gianni Brera il mio risotto alla certosina, dove avevo scomposto tutto. Brera, dopo avermi ascoltato, mi disse: va bene ma vuoi mettere un bel riso in cagnon con due filetti di persico? Io avevo le mie ragioni e lui le sue: lui era l’uomo della  semplicità e io della leggerezza. Di recente ho fatto il menu Verso la purezza, un mio amico ha disegnato per il menu due righe che richiamano il calice, giocando sulla parola verso”.
Si parla anche di altro, anzi c’è in atto una certa fenomenologia di chef che diventano tutto ma soprattutto impera il linguaggio auto celebrativo. Cosa ne pensa?
“Vedi, io non sono neanche più in condizioni di dire niente, io sono moderno per quel tanto che mi concede la mia storia. Ma non mi voglio ridurre a non capire. L’altra sera sono andato alla Scala a vedere Mozart, mio nipote diceva ‘che pizza Mozart’. Preferisco sentire la musica senza l’opera, quando essa ti distrae. Ma quando il teatro è bello e la musica è buona, afferma mia moglie… Il linguaggio di adesso è un linguaggio presuntuoso, non ce l’ho con nessuno ma quando mi vedo servire un bollito sezionato su una tegola con i bicchierini con le salse, oppure mi si presenta un pisello che arriva da quella zona là e però viene servito disintegrato… Giorni fa ero a Verona e, passando davanti ad un ristorante (La Greppia di Giovanna Malini ndr) sono stato invitato ad entrare, lì ho assaggiato il bollito, ho assaggiato la tetta, mi ha fatto venir voglia di comprare un carrello. Prima impari a suonare… Ecco, i cuochi devono imparare a cucinare, a conoscere le tecniche di cottura, il rapporto intensità fuoco-spessore padella,  il punto di equilibrio da imparare e conoscere. E poi dobbiamo essere cinesi, togliere e non aggiungere. E la gente deve imparare a masticare, come dice Gandhi ‘il cibo deve scendere liquido”.
Critica o cronaca?
“La cronaca, ma come ci si permetti di dare dei giudizi. L’importante è che sia diversamente buono e diversamente bello. Bisogna smetterla di sputare sentenze”.
Il futuro come sarà?
“Il futuro sono io. Scherzi a parte, come finirà questa storia della cucina? Non lo so, c’è un ripristino per i prodotti della terra ma chi ci torna alla terra? Il mondo è diventato enorme, difficile pensare cosa avverrà? Io vado verso la materia e la purezza. L’importante è crearsi uno stile purché le cose siano buone. Vorrei che ALMA fosse una scuola di questo tipo, in grado di creare uno stile”.
Da maestro quali sono i suoi maestri?
“Il maestro è quello che insegna con l’esempio”.
Qual è il suo piatto della memoria?
“Devo andare molto indietro, quando ero bambino. Il paese di mio padre era San Zenone Po: mangiare il minestrone davanti alla porta di casa e il bottaggio, la cassoeula con il pollo. Poi il secchio del rame che tiravo su dal pozzo e bevevo l’acqua con il ramaiolo. Questi sono i tre piatti della memoria ed è la prima volta che parlo di queste cose, pensa cosa mi fai ricordare”.

Poi la conversazione continua ma è un’altra storia fatta di preziosi insegnamenti.

Luigi Franchi
Intervista pubblicata sulla rivista Catering-Ristorazione e consumi fuori casa
numero di maggio/giugno 2012





martedì 1 maggio 2012

S.Pellegrino Sapori Ticino incontra l’Italia


Grande cucina, grande serata, grande famiglia! Potrebbe bastare questo per descrivere la cena di S.Pellegrino Sapori Ticino che si è svolta lunedì 23 aprile all’Hotel Splendide Royal di Lugano.
Grande cucina che ha visto Marco Ghioldi, chef del ristorante dello Splendide Royal, accogliere Aurora Mazzucchelli, chef del Ristorante Marconi di Sasso Marconi (BO), in una performance di livello altissimo.
I piatti proposti da Aurora Mazzucchelli hanno convinto gli ospiti della geniale intuizione di Dany Stauffacher, ideatore ed organizzatore di S.Pellegrino Sapori Ticino, di dedicare una sezione della rassegna ai “Giovani Talenti d’Europa”. Una parte in cui la chef emiliana si è calata senza esitazioni riscuotendo un’elevata ammirazione: lo stupore con cui sono stati accolti i piatti ne rimane preziosa testimonianza.
Grande serata e non poteva essere altrimenti con un patron come Dany Stauffacher che ha raccolto intorno a sé amici del calibro di Giancarlo Morelli, dell’Osteria de Pomiroeu, e Pio Boffa, della storica azienda del Barolo Pio Cesare. Sono serate, quelle di S.Pellegrino Sapori Ticino, in cui si confondono raffinatezza, informalità, amicizia e valore al nuovo che avanza in cucina, ma un rinnovamento concreto, solido e non estemporaneo ed effimero.
Grande famiglia, infine: quella dei Mazzucchelli. Una famiglia con trent’anni di storia professionale alle spalle, con i genitori a fare da spalla dopo aver trasferito ad Aurora e Massimo passione e competenza. Non è così facile trovare in Italia esempi di condivisione imprenditoriale dove i genitori sanno quando arriva il momento di fare un passo di lato per dare valore e futuro ai figli: al Marconi è accaduto, qui restano saldi i legami che fanno la differenza.
Un ottimo inizio per questa edizione di S.Pellegrino Sapori Ticino che mantiene la promessa fatta da Dany Stauffacher: “Vi faremo innamorare del buongusto e della vita”.

Luigi Franchi





Il programma è consultabile sul sito www.sanpellegrinosaporiticino.ch

La galleria delle immagini della serata con Aurora Mazzucchelli si può vedere cliccando qui





mercoledì 14 dicembre 2011

Gestire una carta dei vini secondo Nicola Bonera





Ma esiste un modello ideale di carta dei vini? Ce lo siamo chiesti entrando in una delle più originali e innovative cantine di ristorante italiano: quella delle Due Colombe di Stefano Cerveni a Borgonato, www.duecolombe.com, nel cuore della Franciacorta. La risposta ci viene dal sommelier del ristorante, Nicola Bonera, navigato wine-consultant e primo classificato al Premio Franciacorta per il Miglior sommelier d’Italia 2010, con cui ci inoltriamo in un discorso intessuto di preziosi consigli.
“Un vero e proprio modello non esiste, ogni carta dei vini riflette le esperienze, le passioni, la cultura di chi l’ha realizzata. Esiste però il numero attraverso il quale la carta può definirsi completa: indicativamente di poco superiore alle 200 referenze”.

Con quale criterio avete costruito la cantina e la carta?
“A 14 mesi dalla riapertura dopo il cambio di sede, la carta rispecchia quasi completamente la nostra filosofia e soprattutto i nostri gusti, ovvero la proposta si sta sempre più spostando verso bollicine (Franciacorta in primis) e vini bianchi di eleganza e di struttura non troppo impegnativa, con ancora una buona scorta di vini rossi, soprattutto italiani, eleganti e fini. Tra i vini bianchi hanno grande spazio quelli dell’Alto Adige, della Wachau in Austria e i Riesling della Mosella in Germania, le mie vere passioni che, ho scoperto strada facendo, sono le passioni anche dello chef e apprezzate da un gran numero di clienti. Il locale è in un contesto storico, le fondamenta della prima costruzione sono datate 900 d.C., per cui mura antiche, pietra, legno e pavimenti antichi; mancava però un locale interrato e sufficientemente vicino alla sala da adibire a cantina, è stata perciò sacrificata una sala del ristorante per ricreare l’ambiente adatto, tramite climatizzazione ed umidificatore possiamo conservare in un ambiente a 15° C e con il 70% di umidità i nostri gioielli.  Per colpire ancor di più, e per permettere ai clienti di visitarla è stata creata una cantina super moderna e tecnologica, con strutture di sostegno in plexiglass e luci fredde a led, di vari colori”.

Il cliente, nel vostro caso specifico, quanto si affida e quanto sceglie personalmente?
“Spesso molti tavoli, all’incirca due su tre, si affidano ai nostri percorsi di abbinamento al bicchiere mentre altri, pur volendo scegliere una bottiglia per tutto il pasto, si lasciano comunque consigliare. In altri casi chi sceglie personalmente il vino lo fa perché è appassionato di certe tipologie o territori, c’è però un nutrito gruppo di clienti che sceglie proprio pensando a ciò che mangerà, e una volta fatta la scelta chiedono comunque conferma al sommelier se quanto ipotizzato possa andar bene”.

Quanto vino riuscite a far girare e come ci riuscite?
“In un anno si vendono circa 3000 bottiglie di vino, solamente per quanto riguarda il ristorante à la carte (poiché parallelamente c’è una struttura indipendente creata per cerimonie ed eventi); tale numero corrisponde all’incirca allo stoccaggio massimo di cantina, per cui si può affermare che vendiamo quanto possiamo permetterci di acquistare. Attualmente in carta ci sono 600 referenze, 600 diversi vini e, a parte alcune bottiglie quasi “intoccabili”, generalmente per prezzi poco accessibili, ne abbiamo già venduti, in un anno, oltre il 75%, cioè 450 differenti etichette. Ciò è fattibile grazie ad una certa curiosità da parte della clientela, che apprezza  percorsi di abbinamento al calice intelligenti, che ci permettono di gestire una serie molto ampia di tipologie e categorie”.

Come funzionano da voi gli abbinamenti cibo-vino?
“Premessa importante: il locale con il quale sto collaborando ora ha al massimo 12 tavoli, per cui c’è tutto il tempo necessario per curare, anzi cullare il cliente che ha voglia di confrontarsi un po’ sulla scelta dei cibi o dei vini. Detto questo capita spesso che la maggior parte degli ospiti scelga i percorsi di abbinamento cibo-vino che abbiamo pensato. Ne abbiamo costruiti tre, con diversi livelli sia quantitativi che qualitativi. Li ho chiamati “percorso scoperta”, “percorso curiosità” e “percorso esperienza”, cioè due vini, tre oppure quattro, non mettiamo un limite alla quantità di vino, solamente al numero di referenze che il cliente assaggerà. In tal modo riusciamo a  gestire il numero di etichette e di bottiglie evitando sprechi; di conseguenza non abbiamo necessità particolari per lo stoccaggio dei vini da proporre alla mescita, macchinari particolari non ne abbiamo, solo un po’ di coraggio e buon senso”.

Nella creazione del menu lo chef tiene conto della cantina? Costruite insieme le due carte?
“Devo dire che Stefano, lo chef, ha un’ottima preparazione sul vino, e anche se costruisce i piatti del menu in assoluta autonomia, una volta pensati li testa anche con tutti noi, chiedendo se tale piatto potrà trovare uno o più abbinamenti con i vini presenti in carta. Talvolta capita che costruisca un piatto in rapporto alle idee che ci si scambia circa l’abbinamento ideale, c’è un’ottima complicità”.

Luigi Franchi

 Pubblicato su Cateringnews.it il 14 dicembre 2011


domenica 4 dicembre 2011

Primo: non sprecare




Per quanto tempo resterà nella memoria collettiva l’insegnamento che per sapere se un uovo è ancora fresco basta scuoterlo? Una considerazione banale che, con un piccolo sforzo di memoria, riporta alla mente decine di altri semplici gesti con cui, fino a pochi anni fa, si evitavano gli sprechi oggi indotti dalle scritte sulle etichette: consumare preferibilmente entro il…
Lo scuotimento dell’uovo non mi ha abbandonato neppure un istante mentre assistevo al 3° International Forum on Food and Nutrition, organizzato da Barilla Center for Food e Nutrition all’Università Bocconi a Milano. E, a furia di pensarci mentre venivano snocciolati dati impressionanti sullo spreco alimentare, sull’obesità e sulla malnutrizione, ho capito quanta cultura alimentare stava in quello e nei mille altri sapienti gesti che si sono compiuti nelle cucine degli italiani, nei ristoranti, nelle aziende agricole.
Una cultura che rischia di essere spazzata via, che in molti Paesi industrializzati non c’è già più: la conoscenza è sostituita dal prezzo e dalla praticità. Due tra gli elementi che generano quel 1,3 miliardi di tonnellate di cibo che ogni anno finiscono nella spazzatura, mentre un miliardo di persone non ha cibo sufficiente per sopravvivere.
La praticità ci sta spingendo verso la produzione di cibo sbagliato, come hanno sostenuto Ellen Gustafson, co-fondatrice del FEED Project, una società no-profit che crea buoni prodotti che aiutan a nutrire il mondo, e Vandana Shiva, fondatrice di Navdanya, movimento per la conservazione delle biodiversità e per i diritti degli agricoltori che sostiene che in realtà non cresce il cibo ma le commodity: “Si  sta tentando di separare il cibo dal concetto di nutrizione, la nutrizione dall’agricoltura e l’agricoltura dall’ambiente”.
Non è buon cibo quello che vede, nel 70% dei casi, sulle etichette almeno la presenza di una o più delle tre commodity – grano, soia e mais – ormai controllate da fondi finanziari che, guarda caso, sono quelli che hanno garantito i ritorni maggiori negli ultimi cinque anni. Non ci si nutre con la praticità, anzi si contribuisce all’enorme crescita dei rifiuti che, solo in Italia, stando alle parole di Andrea Segrè fondatore di Last Minute Market, pesa per 580 kg pro-capite all’anno, di cui il 20% in imballaggi: “Si tratta di 20 milioni di tonnellate di rifiuti che equivalgono ad uno spreco di 12 miliardi di euro”. Una enormità che produce un solo assurdo risultato: tasche più vuote e mondo più inquinato!
La causa sta in molti fattori ma il principale è il prezzo. “Il cibo costa troppo poco, ce n’è troppo, lo si tratta e lo si gestisce con superficialità perché conta di più l’aspetto esteriore di quello del gusto” ha spiegato il giornalista americano Jonathan Bloom, autore del blog Waster Food.
È vero, il cibo costa poco, troppo poco rispetto ai costi di produzione, soprattutto quelli agricoli che fanno lasciare nei campi, solo in Italia, 14 milioni di tonnellate di materie prime che hanno richiesto 12,6 miliardi di metri cubi di acqua per essere prodotti. Ma l’agricoltore non riusciva a sostenere ulteriori costi rispetto alla miseria con cui, ad esempio, quest’estate venivano retribuite le pesche: 5 chili per pagarsi un caffè al bar.
Allora vale davvero la pena di seguire il consiglio di Andrea Segrè: “Da domani, quando andate al supermercato, imponetevi di comprare solo dieci cose per volta. Non una di più. È un esercizio che potrebbe rivelarsi faticoso, ma fatelo. Cominciate così a ridurre gli sprechi.”
E torniamo ad ascoltare l’uovo.

Luigi Franchi
Pubblicato su Cateringnews.it giovedì 1 dicembre 2011

giovedì 24 novembre 2011

Cronaca di un corso di cucina di casa


Dopo essere stati a Casa Artusi diventa più facile comprendere la frase con cui Pellegrino Artusi concludeva la sua prefazione al libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, ovvero il libro di cucina forse più tradotto al mondo, sicuramente quello con il maggior numero di riedizioni dal 1891 ad oggi.
Artusi chiudeva così: Amo il bello ed il buono ovunque si trovino. E, arrivando nella sua città natale, si capisce quanta influenza abbia esercitato su queste parole: oggi Forlimpopoli si presenta legata in maniera indissolubile al buon gusto. Basta fare un giro per le vie del centro per rendersene conto, a cominciare dall’arredo urbano, perfetto, pulito e ordinato perfino nei tendaggi dei negozi: tutti di un bel rosso granata con la scritta che dà il benvenuto al passeggio tra le vie del buon gusto.
Con questa immagine si varca la soglia di Casa Artusi, luogo di delizie architettoniche, estetiche, culturali e gastronomiche. Lo si può fare per svariati motivi: visitare la splendida biblioteca gastronomica, pranzare nel ristorante, assistere ad un dibattito o,e questo è il suggerimento più caloroso, partecipare ad uno dei numerosissimi corsi di cucina di casa che vengono organizzati.
La scelta è caduta su quello dedicato alla pasta: La sfoglia di una volta. Accolto dal ritratto dell’eleganza, la responsabile dei corsi, Carla Brigliadori, in una solare mattina d’inverno vengo subito messo a mio agio in mezzo agli altri 19 partecipanti (tre uomini e il resto donne) con cui assisto all’introduzione alla giornata: una purtroppo troppo breve lezione di storia e cultura della pasta a cura del professor Franco Mambelli, che offre utilissimi informazioni sulle regole del gioco che inizierà da lì a poco.
Entrano in scena le Mariette, ovvero le tutor a cui veniamo affidati: a me tocca Corrada Ricci, da condividere con Laura, una ragazza che da geometra ha deciso che diventerà una bravissima pasticcera. Dalla manualità che dimostra non ho dubbi che accadrà. Scopro che entrambe hanno fatto i corsi serali di Alberghiera: Corrada li ha intrapresi una volta raggiunta la soglia di giovane nonna; Laura sta finendo quest’anno, dopo essere stata, come molti, vittima della crisi che le ha fatto perdere il lavoro da geometra. Potenza della passione e della determinazione.
Si inizia! Ognuno alle sue postazioni della sala perfettamente attrezzata di Casa Artusi: uova, farina, asse da cucina, raschietto, matterello, tasca per il ripieno. Si comincia con il primo dei cinque impasti della giornata e ci si riconcilia con la chimica degli elementi. Sentire sotto le dita impiastricciate che, poco a poco, si forma una palla perfettamente elastica è una sensazione che non diventerà mai gesto ripetitivo. Questa è la prima cosa da tenere in mente!
Poi si passa al matterello. A Casa Artusi e in tutta la Romagna non esiste altra regola: il mio pensiero va alle due mitiche Imperia rosse che ho a casa. Ma ho deciso che non le abbandonerò, troppi ricordi affettivi mi legano ad esse. Si alterneranno con il matterello.
Sulla sfoglia tirata a matterello si scontrano intransigenze. Lo sento, ma Corrada è indulgente con le mie pieghe e mi insegna pazientemente come correggere i difetti, mentre il mio occhio cade sulla sfoglia perfetta di Laura.
Escono i primi tagli: io scelgo lasagne, garganelli e pappardelle. Altri si cimentano in tagliatelle, farfalle, tagliolini. In comune il fatto che non si butta via niente: i ritagli di pasta diventano maltagliati o stricchetti.
Al pomeriggio il clima ormai è conviviale, il pranzo al ristorante di Casa Artusi ha contribuito ad integrare le conoscenze, confrontare i gusti, raccontarsi aneddoti divertenti. Poi non ce n’è come essere ad un tavolo, unico uomo, con sette donne…
Si parte con le paste ripiene: ravioli e cappelletti all’uso di Romagna che garantiscono il piacevole indugiare alla chiacchiera.
Il piacere assoluto però è quando ci viene consegnata la pasta prodotta con le nostre mani. Credetemi, si ritorna bambini felici. Non si vede l’ora di farla assaggiare! Alla fine il diploma, l’attestato firmato di pugno dalla Marietta che ci ha seguiti: il mio porta la firma di Corrada Ricci, e in un angolo la scritta “bravissimo”.
Non mi faccio illusioni, i segreti imparati sono solo una piccola parte e tornerò ancora. Nel frattempo ho inoltrato la richiesta per essere accolto nell’associazione delle Mariette: l’unica che prevede quote azzurre, anziché rosa.
Tre giorni dopo ero in metropolitana a Milano: in tutta la tratta dodici persone su quattordici non hanno mai alzato lo sguardo dal cellulare. La voglia di spiegar loro che c’è un luogo in Italia dove si trova il bello e il buono era incontenibile.

Luigi Franchi
pubblicato su Cateringnews.it il 24 novembre 2011

mercoledì 16 novembre 2011

Serietà e innovazione, lo stile italiano che si riafferma

Tre stelle all’Osteria Francescana di Modena, meritate, meritatissime, che coronano lo straordinario anno di successo internazionale di Massimo Bottura. Ma anche una pioggia di nuovi riconoscimenti a due e una stella per la ristorazione italiana nello stesso giorno in cui anche l’immagine pubblica del Paese volta pagina con l’insediamento del governo Monti.
Come dire, serietà e innovazione che dimostrano ancora che questo Paese vale. Alle tre stelle assegnate a Massimo Bottura si affiancano i nuovi due stelle Michelin: Massimo Mantarro del Principe Cerami-Hotel San Domenico Palace di Taormina (ME), Andrea Migliaccio dell’Olivo-Hotel Capri Palace di Capri (NA), Antonio Mellino del Quattro Passi di Massalubrense (NA), Olivier Glowig dell’omonimo ristorante a Roma.
Gli altri locali che conquistano una stella sono 33.  Il totale dei ristoranti stellati in Italia sale a quota 295: 7 tre stelle, 38 due stelle, 250 una stella. Praticamente il 30% in più rispetto a sei anni fa: un dinamismo che dimostra quanto sia importante la capacità di scegliere, al posto dell’inseguire mode effimere e scimmiottamenti. I ristoratori e i cuochi italiani cominciamo a scoprire identità, radicamento con il territorio, ruolo sociale della loro attività.
Basta spulciare tra le curiosità della nuova edizione della guida Michelin per capire la trasformazione che è in atto: la Lombardia rimane la regione più stellata (56 esercizi), seguita dal Piemonte. Al terzo gradino del “podio”, a pari merito, si trovano Campania ed Emilia, quest’ultima con le tre stelle a Massimo Bottura e due nuovi locali a una stella: La Palta di Bilegno (PC) e I Portici di Bologna. La Toscana è la regione più dinamica, con 6 nuovi stellati e 6 nuovi Bib Gourmand. A livello delle province, le più stellate sono Cuneo e Bolzano (17 esercizi ciascuna), seguite dalla provincia di Napoli. Bolzano è anche la provincia con il numero più elevato di Bib Gourmand.
Ma ci sono anche 380 agriturismi e B&B che premono verso la qualità dell’accoglienza, 388 esercizi dotati di Spa e 937 di particolare suggestione; segni dei tempi che vedono il consumatore più rigoroso e selettivo, in cerca di luoghi ed esperienze di benessere tangibile, dove il prezzo è una componente nuovamente importante a cui viene attribuito un giusto valore, un atteggiamento trasversale a tutte le fasce e i ceti socioeconomici. Forse si può ipotizzare che è definitivamente tramontata la “Milano da bere” sostituita da una ricerca di autenticità.
Una piccola nota di soddisfazione: quattro locali dei 160 che abbiamo descritto nella guida ragionata Meglio Prenotare 2012 hanno conquistato per la prima volta la stella Michelin o sono diventati Bib gourmand: si tratta di Gignod a Le Clusaz (AO), Al Pont de ferr di Milano e, Bib gourmand, il Pretzhof di Vipiteno (BZ) e L’Anice stellato di Venezia. Luoghi dove identità e autenticità non sono solo belle parole.

Luigi Franchi
Pubblicato su Cateringnews.it il 16 novembre 2011
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venerdì 4 novembre 2011

Il Coltellino d'oro e l'altra Italia



Ieri sera mentre guardavo Servizio Pubblico di Michele Santoro, e ancora in questi giorni mentre leggevo le cronache sui giornali o coglievo brandelli di conversazione tra le persone nei luoghi normali della vita quotidiana riflettevo su quella che impropriamente viene definita “l’altra Italia”. Uso il termine impropriamente perché l’errore più clamoroso che abbiamo commesso e stiamo commettendo è proprio questo: pensare alle persone che lavorano, alle persone perbene come “all’altra Italia”.
Poi mi imbatto in una notizia, che apparentemente non c’entra nulla con ciò che sta succedendo intorno a noi, nei mercati mondiali, nelle difficoltà drammatiche in cui si trova l’Italia che fino a pochi mesi fa venivano coperte e nascoste dall’incoscienza della classe politica che ci governa: la consegna del Coltellino d’oro a Francesco Guccini da parte del Consorzio del Parmigiano-Reggiano.
Il “Coltellino d’oro” è il massimo riconoscimento conferito annualmente dalla Sezione provinciale del Consorzio del Parmigiano-Reggiano a personalità modenesi che si siano distinte nella loro attività.
Uno dei tanti riconoscimenti che vengono dati, nelle varie parti d’Italia, a volte significativi, altre volte puramente promozionali.
Ma questo, in questo momento, assume ai miei occhi una dimensione diversa: viene assegnato (cito il comunicato) sabato 5 novembre a Modena al Forum Monzani, dove alle 19,00, si celebrerà la tradizionale “Festa dei Caseifici Modenesi”, giunta alla quarantesima edizione.
“Un appuntamento che, in occasione del 40° anniversario, abbiamo voluto rinnovare nella formula, da cena ad evento con varie iniziative e premiazioni – sottolinea il presidente della Sezione, Aldemiro Bertolini – come segno di stima e di ringraziamento per tutti quei maestri casari che sono autentici protagonisti del successo del nostro prodotto”.
“Un’occasione di festa – aggiunge Bertolini – nell’ambito della quale siamo davvero lieti di consegnare il “Coltellino d’oro” a Francesco Guccini, che con la sua musica ha contribuito a diffondere la cultura delle nostre terre, il nostro modo di vivere e, in qualche misura, anche l’immagine del Parmigiano-Reggiano, che di questa terra e dei valori e tradizioni che esprime è parte integrante”.
Ecco dove sta “l’altra Italia”! Ma questa è la parte vera del nostro Paese, non l’altra. Questa è la parte fatta di un tessuto imprenditoriale che sa mischiarsi con i luoghi, con le persone, con la storia e con il futuro.
La festa dei Caseifici Modenesi sarà una festa molto tradizionale, con il buffet, con lo spettacolo comico e con l’orchestra, con i giochi per i ragazzi. Ma anche con la presenza di quei giovani e di tutte quelle persone che stanno vicino ad un prodotto nobile ed antico come il Parmigiano-Reggiano attraverso i social network, la fanpage di Facebook che vanta 23.000 persone. Il futuro dunque.
Non è un operazione nostalgia del buon tempo andato. Questa è l’Italia, fatta di persone che lavorano e che celebrano il loro lavoro ritrovandosi insieme, in una festa che dura da quarant’anni. “L’altra” è solo un orribile incubo da cui, per fortuna, ci stiamo svegliando.

Luigi Franchi
pubblicato su Cateringnews.it, 4 novembre 2011

martedì 1 novembre 2011

Meglio Prenotare, storie italiane di ristoranti affermati





Le prime presentazioni della guida ragionata Meglio Prenotare, storie italiane di ristoranti affermati, edita da Edizioni Catering, hanno confermato la validità del progetto editoriale: raccontare, facendo parlare i protagonisti, le storie della ristorazione il cui successo è decretato dai clienti.
In occasione di Host, il salone dell’ospitalità professionale, il giornalista Maurizio Di Dio, curatore della rivista La Pentola d’Oro, ha presentato al pubblico professionale di Host, salone dell’ospitalità professionale a FieraMilano, gli autori della guida in due distinti talk-show: il primo ospitato da Tre Spade, azienda di riferimento per i prodotti casalinghi di qualità e per quelli dedicati a industria alimentare e, di recente, alla ristorazione; il secondo presso lo spazio La cucina del futuro, coordinato da Stefano Marinucci, presidente di FIC-Promotion.
Entrambi gli eventi hanno visto un pubblico composto da chef, ristoratori e giornalisti molto incuriosito dalla formula che sta alla base della guida: “Non abbiamo scritto una guida con l’intento di assegnare punteggi, ma di raccontare storie di ristoratori, cuochi, imprenditori e famiglie che hanno portato al successo il loro locale. Abbiamo voluto mettere in evidenza un aspetto a cui raramente si dà voce: quali sono i motivi e le scelte per cui un locale è apprezzato dalla clientela fino a creare fidelizzazione, passaparola positivo, la necessità di prenotare perché è spesso pieno. E lo abbiamo fatto selezionando 160 locali italiani, trasversali come tipologia che vanno dal ristorante stellato alla pizzeria, per offrire un ideale viaggio in Italia per i viaggiatori golosi e curiosi. Ma soprattutto per dare ad altri ristoratori la possibilità di conoscere i motivi di un successo, trarne eventuali spunti di riflessione per il loro locale” ha spiegato Roberto Martinelli, direttore di Edizioni Catering e della rivista Catering, autore della approfondita introduzione alla guida.
Meglio Prenotare, alla sua prima edizione, raccoglie dunque 160 storie di ristorazione italiana, selezionate grazie ad un pool di suggeritori esperti di ristorazione distribuiti in tutte le regioni italiane. Il criterio di indicazione era appunto quello di indicare locali premiati dalla clientela per i motivi più diversi: dalla cucina al rapporto qualità-prezzo, dal servizio alla selezione delle materie prime di qualità, dalla storia del locale all’innovazione.
Intorno a queste segnalazioni hanno poi lavorato i cinque autori della guida: Alfredo Antonaros, Luigi Franchi, Alessandra Locatelli, Antonio Longo, Roberto Martinelli.
“Non è certo una base statistica quella che abbiamo voluto rappresentare, il numero è sicuramente esiguo rispetto alle migliaia di luoghi di consumo fuori casa che ci sono in Italia. Ma abbiamo volutamente scelto, coprendo comunque tutte le province italiane, locali che corrispondono ai desideri di chi li frequenta e tale frequentazione testimonia palesemente la capacità del ristoratore di assecondare buona parte delle aspettative della clientela. Non diciamo tutte ma con molta probabilità un buon numero: altrimenti il locale non sarebbe gradito e quindi nemmeno affollato. Gli elementi che confermano la fortuna di queste attività emergono casualmente e sono state trascritte senza alcuna priorità. Sono state evidenziate come così ci sono apparse dai racconti dei protagonisti. È molto probabile che il lettore possa avvertire nelle sue riflessioni altri elementi oltre quelli evidenziati da noi. Se ciò fosse sarebbe una ulteriore conferma della scelta di quel locale” ha ribadito Roberto Martinelli nel corso delle presentazioni.
La guida è in vendita, al costo di 13 euro, online sui principali bookshop o richiedendola al sito
www.cateringnews.it
http://www.amazon.it/Meglio-prenotare-italiane-ristoranti-affermati/dp/8897671004

Tra architetture agricole e sapori isolani



Panficato dell’Isola del Giglio, bottarga di tonno di Carloforte dell’Isola di San Pietro, la schiaccia e i mieli dell’Isola d’Elba, la masculina ‘emagghia della piccola Isola di Ortigia di Siracusa, i fagioli zampognari dell’Isola d’Ischia: sono solo alcuni dei prodotti delle isole del Mediterraneo che Claudio Bossini si è fatto mandare o portare dai produttori per allestire uno spazio della sua Osteria La Paloma, a Giglio Porto, dove si possono acquistare vini, oli, paste, salse delle varie isole italiane, tra cui quella palamita che lui ha contribuito in prima persona a riaffermare come presidio Slow Food.
In occasione delle Giornate Europee del Patrimonio culturale, a fine settembre, Claudio Bossini decide di estendere quell’angolo di osteria ad un prodotto che accomuna tutte queste isole: il vino passito. Trova la disponibilità dell’amministrazione comunale dell’isola, quella dei produttori del Giglio, e avvia le ricerche e i contatti.
Attorno al progetto si dà vita ad un convegno inusuale dove sono infatti i produttori arrivati con i loro vini dalle varie isole a parlare, raccontare le loro esperienze, le fatiche che comporta produrre su un’isola, ma anche i piaceri, la qualità della vita, la difesa della terra: Gaetano Conte, tecnico dell’Arcipelago Muratori e dell’azienda Giardini Arimei dell’Isola d’Ischia, Ugo Lucchini dell’azienda Acquabona dell’Isola d’Elba, Umberto Zamaroni dell’azienda U Tabarka dell’Isola di San Pietro, sono tra quelli che raccontano perché hanno scelto di andare a fare i vignaiuoli su un’isola, partendo dalla terraferma.
“Al Giglio ci si viene non solo per il mare, ma anche per recuperare e vivere la tradizione dell’isola. E il vino e i suoi aspetti sociali ne sono uno straordinario esempio che costituisce la base del progetto in cui crediamo”, parole che Sergio Ortelli, sindaco del Giglio, pronuncia con profonda convinzione prima davanti agli ospiti del convegno, poi in maniera informale ma ancor più sincera in una delle cantine seicentesche di Giglio Castello, mentre si assaggiano i piatti e i vini delle isole, in un clima di grande fratellanza.
“Un tempo, fino a quarant’anni fa, le viti ricoprivano i due terzi dell’isola e la vendemmia si faceva con le barche” dice Giovanni Rossi, produttore gigliese della Fontuccia, mentre scendiamo a piedi verso la sua vigna di un ettaro strappato alle rocce di granito che formano l’isola. “Io e mio fratello abbiamo cominciato a reimpiantare il vigneto una decina di anni fa e adesso produciamo circa 2500 bottiglie di Ansonica e 500 di passito.” Da questi numeri è chiaro che non ha fatto questa scelta perché poteva diventare un business. E basta guardare come si muove tra i bassi filari, coglierne lo sguardo mentre racconta dei giorni in vigna per capire che non cambierebbe questa vita con nessun’altra.
I suoi vigneti e quelli dei pochissimi altri produttori dell’isola sono capolavori di architettura agricola la cui bellezza è tanto più apprezzata se si pensa alla fatica con cui sono stati creati. Bisogna camminarci in mezzo per capirlo; al contempo si capisce anche tutto l’amore che ci mettono, tutta la bellezza che si vive.
Un capannello, così si chiamano qui i palmenti, davanti al mare serve per ricoverare gli attrezzi, ma anche per riposare dalle fatiche e lasciar riposare gli occhi e la mente, senza squilli i cellulari che qui, al pari della totale assenza di luce elettrica non prendono.
“Niente veleni, niente diserbanti, niente di niente. Solo grande passione” si spiega così il motivo per cui Francesco Garfagna ha trasformato le sue vacanze al Giglio in stanzialità, recuperando una vigna e ridando vita all’Ansonica, il vitigno dell’isola citato dal Bacci nel Cinquecento il cui nome pare derivi dal francese sorie, fulvo, color oro. Il suo esempio, e forse di più la sua cocciutaggine, hanno vinto: il vino al Giglio è ritornato, naturale come deve essere.
La sua è la vigna più grande dell’isola, circa sei ettari, ma lui non produce passito perché “non lo sento mio” racconta “ma resta un vino importante, fondamentale per recuperare identità.”
“Qui un tempo si faceva il vino scelto, era la prelibatezza natalizia” svela Biagio, uno storico produttore che ora fa il vino per sé, “si prendevano i grappoli di diverse uve, si lasciavano ad appassire sulla roccia e poi si preparava il passito.”
Il vino ridisegna le antiche strade del mare, non ricordo chi ha detto questa frase tra le decine di storie ascoltate nei giorni dell’incontro tra i produttori delle isole; ma è la sintesi del progetto.
Perché è vero, il vino, insieme all’olio e agli altri prodotti alimentari, hanno generato per millenni rotte commerciali e mescolanza di razze. Hanno creato democrazia.
Quella stessa che Claudio Bossini, a suo modo, replica ogni giorno nella sua osteria, riconoscibile appena si sbarca a Giglio Porto, per l’azzurro della facciata e il cartello ‘cucina spontanea’: “Si decide giorno per giorno cosa mettere in carta, in base al pescato. Ho voluto, non a caso, valorizzare il termine ‘cucina spontanea’ che è stato coniato dai clienti. Ad esempio io cucino solo per la sera, perché al mattino arriva il pesce fresco e, sulla base di ciò che dà il mare o la terra dell’isola con i suoi frutti, mi devo organizzare. – racconta il cuoco - A volte questa scelta di proporre il quotidiano non è capita, ma quando l’ospite mangia il piatto con un’attenzione diversa, diventa il piacere vero per cui continuo a fare questo lavoro.”
Sono persone straordinarie quelle che ho conosciuto attorno ai tavoli della Paloma e nelle vigne di fronte al mare: persone che impiegano mille ore a ettaro di lavoro contro le abituali duecento di un vigneto di pianura, ma non per questo rinunciano a difendere la loro terra, la loro identità, il loro amore per l’isola. Un modo diverso di vivere, dove i ritmi li decide ancora una volta la natura.

Luigi Franchi

Pubblicato su www.cateringnews.it – Settembre 2011