domenica 19 luglio 2009

Un viaggio nella memoria


Può sorprendere che un’artista, il cui futuro è inevitabilmente proiettato in una dimensione internazionale, introduca nella sua carriera un ciclo di opere legate alla storia locale. Ma non in questo caso che invece esprime al meglio la matrice che sta alla base del lavoro di Brigitta Rossetti: il luogo.
Oggi si fa un grande uso del neologismo del non-luogo, coniato dall’antropologo Marc Augè, ovvero quegli spazi non identitari in cui le persone si incrociano senza relazionarsi mai. Mentre tutta l’opera pittorica di Brigitta Rossetti si muove fortunatamente in controtendenza, affermando la dimensione antropologica di spazi e figure.
Nei quadri che accompagnano la felice intuizione di Stefano Frontini di dar vita, attraverso opere in cera, ad un museo della storia piacentina coniugandolo all’arte contemporanea, ritroviamo il lucido legame che Brigitta ha con i luoghi in cui ama lavorare.
Sono luoghi in cui il silenzio si fa potente, lascia parlare il vento e le nuvole, lascia alla forza della terra affermare i cicli della vita, fa del ricordo e dell’immaginazione una costante.
Un’identità che si legge nel ciclo dei “guerrieri” che Brigitta ha realizzato dove i volti sono appena accennati nella loro grazia, i corpi che si fanno possenti sembrano gonfiati dal vento, i tratti e i colori riportano alla terra, luogo d’origine della vita in tutte le sue forme.
In alcune di queste opere si ritrovano segni che richiamano le prime pitture paleolitiche di Lascaux, fatte dall’uomo circa 15.000 anni fa. Non è immutabilità ma conferma che alla terra, alla forza della natura, alla potenza espressiva dell’uomo va riconosciuto sempre e comunque un valore, che Brigitta Rossetti porta dentro.
In questo ciclo pittorico diventa evidente come l’uomo, un popolo continuino a vivere anche dopo la loro stessa vita, il loro percorso storico; questo avviene quando la loro forza lascia il segno, trasformandosi in mito e idea, che si fanno memoria.
Questa è il vero punto di forza del connubio tra le opere di Brigitta Rossetti e il museo che le ospita. E’ un viaggio nella memoria, quella antica che bisogna proteggere, che non si può disperdere, che ci ricorda il nostro ruolo qui, su questa terra.
Le opere oggetto di questa ricerca presentano un contenuto prepotentemente atmosferico, dove una forza di gravità soprannaturale tiene sospeso un messaggio, come se l’affermazione di Leonardo da Vinci che “il pittore è padrone di tutte le cose” qui trovasse il suo preciso riscontro.
L’artista domina i suoi guerrieri, li veste con i colori della terra, gli infonde, pulsante, l’energia positiva del messaggio che gli vuole affidare: dalla terra si raccoglie energia, voglia di vita, e alla terra dobbiamo guardare se vogliamo che il mondo, tutto il mondo torni ad essere un mondo migliore.

Luigi Franchi

www.brigittarossetti.com

Alfredo, Amedeo e Fabrizio Magnani, produttori di Culatello


Nel 1967 aveva 29 anni e, mentre il mondo si stava apprestando a diventare sempre più urbanizzato e metropolitano, Alfredo Magnani decideva di acquistare un podere a poca distanza dal suo negozio in quel di Roccabianca; quel podere si chiamava Brè del Gallo, tradotto in italiano “prato del gallo”.
Da lì Alfredo non si è più mosso, lo ha lavorato, lo ha trasformato, vi sono nati e cresciuti i figli Fabrizio e Amedeo, vi sono stati prodotti Culatelli straordinari con una regola: restare piccoli!
Piccoli inteso come dimensione produttiva, quel piccolo che consente di fare bene le cose perché si può dedicare la cura necessaria, dare un valore al tempo perché è l’ingrediente fondamentale per fare i Culatelli straordinari.
Il rustico che sorge sul podere del Brè del Gallo ha le caratteristiche ideali per vivere bene e far crescere e maturare bene i prodotti: mura spesse delle case rurali che consentono il giusto equilibrio tra caldo e freddo, le cantine di stagionatura esposte a nord, con le finestre tipiche della bassa che vengono aperte ogni mattina per prendere quell’umidità dell’alba che fa grandi i Culatelli. Infine i pavimenti bagnati con acqua e vino per garantire la costanza dell’umidità.
Questi gli ingredienti; ad usarli sono Alfredo, Fabrizio ed Amedeo, con l’aiuto del loro norcino di fiducia, il Vito Fanfoni, conosciuto come uno dei migliori sulla piazza.
Il risultato? Milleduecento Culatelli strepitosi ogni anno, non uno di più ne’ uno di meno. “E’ una scelta, non ho mai cambiato regola e non intendiamo farlo neppure ora – raccontano padre e figli – Per noi il Culatello resta il prodotto che ci identifica e non vogliamo aumentarne la produzione ma la qualità.”
Più di così, all’assaggio, sembra impossibile aumentare ancora in qualità ma questa è un’altra storia. Evidentemente si può e ci limitiamo a crederci ed aspettare un’altra occasione di assaggio.
Conversare con la famiglia Magnani è un piacere che porta alla scoperta di una sorta di autarchia agricola. Amedeo si occupa a tempo pieno dell’azienda, collaborando con il norcino ma soprattutto curando le sue piccole grandi passioni: le centoquaranta biolche di terra che lui si coltiva da solo.
Fabrizio fa il veterinario e Amedeo il responsabile qualità in Parmalat. Ma ogni sera, al termine del lavoro, e ogni sabato e domenica vengono qui, al Brè del Gallo, a fare i lavori che servono per mandare avanti l’azienda, a gestire i rapporti con una clientela solida e di fiducia, ad accogliere gli ospiti sempre più numerosi.
Ed è con gli ospiti che i ricordi vengono condivisi, amplificando una memoria del territorio che è patrimonio culturale come quando si racconta che il Culatello non lo mangiava la famiglia contadina che lo produceva ma lo vendeva al “mediatore” che, in ogni paese, conosceva tutte le aziende agricole. Era il prodotto di scambio per poter ricomprare il maiale per l’anno successivo. Questa è solo una delle tante storie che vengono raccontate sotto l’accogliente portico di Brè del Gallo, tra una fetta di Culatello, una di Spalla Cruda e un bicchiere di Fortana, prodotta dalla famiglia Magnani in tremila bottiglie.
Le altre riguardano il modo di produrre che si sono dati: antiche e laboriose ricette come quella del loro cotechino dove ci finiscono dentro musetto, muscolo, lingua, cotiche, spalla e aromi segretissimi ma naturali.
“Vogliamo difendere queste ricette che richiedono infinita pazienza e estrema cura e selezione delle materie prime. – dicono insieme i tre Magnani – Per questo siamo convinti che sia importante mantenere una piccola dimensione. Vogliamo continuare a vivere questa esperienza come un vero piacere.”
Nel corso della conversazione arriva la mamma e moglie, figlia di quel Gustein (Agostino Tamburini), grande amico di Giovannino Guareschi. Amico a tal punto che Giovannino gli disse “Gustein, a San Francesco bisogna c’at ma porti te cul camion”.
Bisogna che mi porti tu con il camion a Parma, al carcere. Era il 26 maggio 1954 e Guareschi decise di andare di sua iniziativa in carcere per essere completamente scagionato dalle accuse ingiuste.
E, all’improvviso, escono le foto del tempo e affiorano altre storie da ascoltare. Si diventa ricchi dentro al Brè del Gallo.


Luigi Franchi

Vincere ogni mattina


Il piacere comincia dal profumo di pasticceria appena sfornata che ti assale quando parcheggi a pochi metri, sul piazzale antistante le terme; è primissima mattina, il momento ideale per intervistare un pasticciere, ha appena finito le sue prime cinque ore di lavoro, è soddisfatto del risultato, lo sta toccando con mano come ogni mattina mentre i primi avventori ordinano croissant, cornetti, bignè, cannoncini.
Mentre parliamo sta verificando la consistenza della pasta per i croissant da preparare per il giorno dopo, si muove rapido con la sfoglia che taglia a triangolo isoscele, con un attrezzo pensato apposta. Poi le mani si muovono rapidissime a formare il classico cornetto.
“Sembra ripetitivo, ma ogni mattina è diverso, dalla consistenza della pasta alla lievitazione. Non esiste un giorno uguale all’altro mentre si impasta, si dosa, si fanno le diverse forme dei dolci e dei biscotti” racconta Claudio Gatti, pasticciere da 37 anni, mentre invita all’assaggio dei croissant del giorno.
Ma le vere specialità di Claudio sono altre, veri trionfi di bontà: la Focaccia, un dolce dalla forma di panettone che per Pasqua assume le sembianze della colomba, che prima di offrirsi agli occhi dei suoi estimatori viene lavorata per oltre 30 ore; il Pandolce all’olio, prodotto rigorosamente con ingredienti biologici, di qualità controllata, con il Brisighello, il delizioso Olio extravergine d’oliva DOP di Brisighella.
La scelta di utilizzare materie prime a Denominazione d’Origine lo ha fatto entrare nel pool di aziende selezionate per partecipare a Deliziando, l’iniziativa di scambio commerciale con i mercati esteri organizzata da Unioncamere e Regione Emilia-Romagna.
Mentre racconta quest’ultima cosa a Claudio Gatti brillano gli occhi di soddisfazione; è il meritato riconoscimento alla meticolosità con cui seleziona le materie prime per le sue creazioni.
Dopo quindici anni di gavetta e apprendistato, cominciato a 16 anni, nelle pasticcerie Salsi e Tosi a Salsomaggore Terme, nel 1988 Claudio decide il grande passo, come hanno fatto tutti i capaci artigiani nel corso dei secoli: aprire la propria bottega.
Nel suo caso un bar-pasticceria con laboratorio annesso a Tabiano Terme, sulle colline parmensi, a ridosso delle fonti termali. In queste giornate d’estate una distesa di tavolini ben ombreggiati invita al relax, alla conversazione contornata dalle squisitezze artigianali.
E’ talmente piacevole che non fatichiamo a capire perché da qui Claudio si è allontanato solo per frequentare ogni possibile corso di specializzazione, con i grandi maestri della pasticceria italiana, Iginio Massari e Achille Zoia in primis.
“Continuo anche ora perché non bisogna mai pensare di essere arrivati” afferma Claudio mentre mi spiega il suo credo che si basa sul fatto che un buon prodotto di pasticceria lo fanno due cose e basta: la lievitazione e la mano del pasticciere.
“Non esiste una standardizzazione nella pasticceria artigianale, ogni mattina è una scommessa, con il tempo, con l’umore, con la reazione delle materie prime. E vincere questa scommessa ogni giorno rende impagabile questo mestiere.”
Una delle cose che amo fare durante le interviste è sollecitare il ricordo e Claudio mi svela la sensazione di quando ha venduto la sua prima Focaccia oltre i confini della pasticceria; è stata acquistata da una gastronomia di Collecchio. Da quel momento è cominciato un passaparola che lo ha portato a fornire le migliori boutique gastronomiche di Parma e Milano ma soprattutto a spedire le sue creature in Svezia, in Norvegia, in Germania.
Ma, nonostante il successo internazionale, lui continua ogni mattina alle quattro a tirar su la saracinesca del suo laboratorio con l’obiettivo di vincere la scommessa.


Luigi Franchi

Pasticceria Tabiano
Viale alle Fonti 7
Tabiano Terme (Pr)
Tel. 0524/565233
www.pasticceriatabiano.it

Pronto Almandina?


“Pronto? Sono il direttore di Terre Verdiane News. Vorrei parlare con qualcuno del Teatro dell’Almandina.”
“Sono Daniela, la presidente.”
“Bene, allora parlo con lei. Sul prossimo numero di Terre Verdiane inizia una rubrica sugli artisti e vorrei aprirla parlando della vostra compagnia. Lei mi sembra la persona più indicata.”
“No, no. La persona più indicata è Chiara, la mamma del progetto. Le do il numero.”
“Pronto Chiara? Sono il direttore di Terre Verdiane. Sul prossimo numero di Terre Verdiane inizia una rubrica sugli artisti e vorrei aprirla parlando della vostra compagnia. Daniela mi ha detto di parlare con lei che è la mamma del progetto. Ci possiamo vedere?”
“Ma no, siamo tutte coinvolte. Sia io, che Daniela, che Francesca. Non è giusto che sia solo io a parlarne.”
Sembra l’incipit di una pièce ma è cominciato proprio così il primo dialogo con quelle dell’Almandina.
Alla fine l’intervista è stata “una e trina”, mai successo, per cui a parlare sono tutte insieme, all’unisono Chiara, Daniela e Francesca; tre donne accomunate dalla passione per il teatro che, dopo essersi incontrate a diversi laboratori teatrali hanno deciso di provarci.
I loro spettacoli hanno un sapore retrò fin dai titoli – Garibalderì, La Magda e la Wanda le sorelle Guerazzi, La Magda e la Wanda fanno il cinéma, Angelina, Dancing da Ines - sono divertentissimi, non hanno attori maschi.
“Ma non per partito preso”, puntualizzano Chiara, Daniela e Francesca. “Finora ci sono venute in mente idee che non prevedevano figure maschili.” Quasi quasi mi candido per un provino, penso e poi glielo dico.
“Almandina ha una grande musicalità – dicono le tre socie – Solo dopo che lo avevamo inventato, abbiamo scoperto che esiste già ed è il nome di una pietra semipreziosa, la cui proprietà è tenere a terra quelli che amano viaggiare sulle nuvole.”
Ovviamente non fa per loro che tracimano entusiasmo da tutti i pori mentre mi raccontano trame, ruoli, progetti futuri. Ma la domanda banale è di rito: perché avete scelto di fare teatro?
La risposta invece banale non è. “Per trasformare i nostri difetti in pregi”, rispondono, e non c’è verso di avere risposte diversificate. “Ogni nostro spettacolo trae spunto da mondi marginali. Uno dei primi è nato incappando in una banda che accompagnava una cerimonia in piazza a Fidenza, in cui era presente Anita, la nipote del signor Garibaldi.”
La loro presentazione nel sito http://www.teatroalmandina.org/ recita così: “ci piacciono le storie un po’ sbilenche, irregolari, capaci di inceppare il meccanismo del luogo comune e d’innescare uno sguardo singolare sul mondo.”
A noi piace andarle a vedere.


Luigi Franchi

Felice di aver creato qualcosa di bello e di buono


Ci sono migliaia e migliaia di caratteri di stampa, in piombo e in legno, ci sono macchine e torchi per la stampa che risalgono al 1822, ci sono manifesti che per farli ci volevano due giorni di lavoro tra composizione e stampa, e poi c’è lui, Gian Carlo Vecchi, tipografo per cinquant’anni, ed oggi custode del Museo della Tipografia Libassi, in quel di Noceto.
Il Vecchi che, per dar vita al museo dopo che il Comune aveva acquistato i cimeli, queste macchine le ha ripulite pezzo dopo pezzo, che i caratteri li ha rimessi in bell’ordine uno per uno e che racconta, con l’entusiasmo di un bambino, la storia della tipografia ai ragazzi delle scuole in visita, gli fa una lezione pratica di stampa e risponde alla mia banale domanda se gli è piaciuto fare questo mestiere nel modo più ovvio: “non sarei qui”. Negli anni scorsi gli dette una mano il suo amico e compagno di lavoro Amos Papotti, oggi scomparso.
Insieme idearono i nomi dei caratteri dove, al posto dei classici Bodoni o Times o altri, misero i nomi di film e opere, di cui erano appassionati; da qui nacquero i caratteri Rigoletto, Semiramide, Toscanini, Quarto Potere, Totò ecc…
La storia della Tipografia Libassi comincia nel 1924 quando Fernando Libassi, all’età di dodici anni, comincia ad imparare il mestiere alla Tipografia Castelli; nel dopoguerra diventa socio e, nel 1963, Castelli, ormai anziano, gli cede l’attività. Da quel momento la tipografia di Libassi diventa La Grafica Nocetana.
Vecchi iniziò il lavoro di tipografo nel 1945, anche lui a dodici anni, e rimase alla Libassi fino al 1953, per poi andare a stampare presso il Laboratorio Caricamento Proiettili.
“Vede quel manifesto appeso? Fu il mio primo lavoro.” Il manifesto recita testualmente:
Noceto Associazione Calcio
Campo Sportivo
Domenica 24 corr. alle ore 13
Avrà luogo l’attesissimo incontro di campionato 1° divisione
S.P. PESENTI (attuale capolista del girone)
NOCETO A.C.
“Io ho composto Noceto A.C.”, ricorda Gian Carlo. Era il tempo in cui un mestiere lo si imparava così, con molta precisione e molte prove sul campo.
“Ma il piombo era dannoso?” chiedo. “Ci davano obbligatoriamente mezzo litro di latte da bere ogni giorno per evitare questo rischio” racconta il Vecchi mentre mi illustra le antiche macchine da stampa, pesantissime, lentissime pensando alla tecnologia attuale.
Mi incuriosisce un manifesto degli anni Settanta di cui conto le righe: ottantadue!
“Per fare questo manifesto ci voleva un giorno intero di composizione. Mentre questa Nebbiolo faceva 1200 manifesti all’ora; quando è arrivata in tipografia sembrava di guidare una Ferrari, rispetto alle altre macchine per la stampa.”
In questo originale museo lo sguardo non sta fermo un attimo, si è catturati da cassettiere sottili in cui riposano migliaia di caratteri e di filetti. “I caratteri più grandi, oppure i clichès venivano fatti con il legno perché la lega di piombo e antimonio li rendeva troppo pesanti. Il legno prediletto era il pino di Svezia, più morbido da manipolare per fare le varie tipologie. Ogni sera bisognava rimettere i caratteri in maniera ordinata nelle cassettiere per facilitare il lavoro del giorno dopo.”
La bellezza estetica delle macchine come l’ottocentesco torchio Dell’Orto, con i piedi a zampa d’elefante e lo scorrimento a rotaia, oppure come i clichès e i caratteri dalle forme più strane, è la sensazione più immediata che lascia una visita al Museo Libassi.
Ma quella più duratura è il racconto che Gian Carlo fa della sua professione, inevitabilmente fusa con quella della sua vita che, tra le tante cose, lo vede ancora adesso protagonista del coro I cantori del Mattino di Noceto, con cui gira il mondo per esibirsi.
Le ultime informazioni riguardano gli orari di apertura: il martedì, il mercoledì e il venerdì al mattino; per altri giorni è consigliabile telefonare all’Ufficio Cultura del Comune di Noceto 0521.622137.
Non perdetevi questa scoperta!

Luigi Franchi

Nicoletta Barbieri La forza delle idee


“Mi viene naturale, ma è una forza che probabilmente è in tutte le persone. Per chi, come me, a cui le persone hanno assegnato un ruolo pubblico, è un dovere farla crescere e offrire a tutti questa opportunità.”
Stiamo parlando con Nicoletta Barbieri della forza delle idee; ed è sinceramente inusuale ma molto piacevole scoprire il valore dell’umiltà nelle parole di un politico oggi.
Ma Nicoletta, pur avendo una giovanissima età, ha conosciuto la politica nella sua dimensione più nobile, crescendo in famiglia a pane e politica fin da ragazzina quando accompagnava il papà a distribuire l’Unità facendolo poi in modo autonomo negli anni a venire, e lavorando in una cooperativa. Ma non è una donna del passato, anzi...
Oggi lei è assessore al Comune di Fiorenzuola, un’esperienza cominciata con la precedente amministrazione, e si occupa di cultura e di politiche giovanili. Un settore, quello della cultura, che lei definisce in maniera chiara: la cultura non può essere personalizzata né privatizzata ovvero questione di qualcuno.
“Le persone si stanno disabituando ad esprimere le loro opinioni, i loro suggerimenti. Mentre io ogni giorno mi ricordo che devo imparare e allora chiedo, cerco di capire i bisogni, di conoscere più da vicino le persone e il territorio in cui devo amministrare; cercando di mettere in circolo che le mie idee e condividere quelle degli altri.”
Questa volta, ma in realtà sono ancora molti e per fortuna i bravi amministratori, queste dichiarazioni sono tangibili e gli atti lo dimostrano. Nella sua gestione degli eventi Nicoletta non sale sui palchi, lascia che a parlare siano i protagonisti, gli artisti, ma anche le persone che partecipano agli eventi, con il loro consenso, con gli applausi e soprattutto con i suggerimenti, di cui è avida.
Soprattutto è concreta la regola delle pari opportunità per tutti, un criterio che non è tra i più divulgati in Italia. “Io credo che sia fondamentale offrire a tutti la possibilità di una crescita personale sul piano culturale. Le mie scelte, condivise con i colleghi amministratori e con larga parte dell’opinione pubblica locale, vanno in questa direzione senza applicare la regola di tutto un po’. Sono scelte dettate da un’idea: non vivere di preconcetti ma costruirsi delle opinioni, E da una convinzione: che non si governa la cultura ma il contrario.” Il tessuto sociale di questa città avrà ancora lunga vita.


LF

Il viaggio


“La vita stessa è ricerca di un punto fermo. E quando si crede di averlo raggiunto, non si è e non si sa ancora nulla. E bisogna ricominciare a muoversi..è questa l’idea di partenza.” Così il regista Wim Wenders parla della sua visione del viaggio, che si ritrova in alcune pagine del libro di Laura Gambazza che descrive così le sue sensazioni: “ogni viaggio è stato uno strepitoso insieme di incontri inattesi..un ulteriore arricchimento che porterò sempre dentro di me…”
Nel libro si narra di Sara, studentessa emiliana che, partita recalcitrante, in Etiopia trova l’amore che la farà restare laggiù. Una storia ricca di emozione che si fonde con la descrizione della valle dell’Omo, scoperta dall’esploratore parmense Vittorio Bottego alla fine dell’800, che vi morì nel viaggio di ritorno.
Nella valle vivono numerose etnie tra cui la Mursi, dove le donne portano il piatto labiale.
Laura Gambazza è appassionata di storia, archeologia e botanica e questo viaggio l’ha affascinata a tal punto che si è cimentata nella sua opera prima; un’esperienza ben riuscita grazie alla freschezza e alla spontaneità di linguaggio. Adesso altri viaggi l’attendono e, ci auguriamo, altri racconti che “riempiono fogli bianchi con la fantasia ed il cuore” attendono i suoi lettori.
Il cuore in Etiopia
Laura Gambazza
SBO Edizioni
€ 18,00

Estate!!


E’ la stagione che ognuno di noi carica di significato; quelli che vogliono divertirsi, quelli che sognano di trasgredire, quelli che si ritirano sulla montagna più alta, quelli che si innamorano, quelli che accentuano il senso di solitudine e via di questo passo.
L’estate che vogliamo augurare a tutti è quella più bella, quella che comincia con l’invadente profumo dei tigli in fiore e prosegue nelle giornate in cui tutto è più lento, quasi ozioso. L’invito è di approfittarne per lasciar venire alla luce buoni pensieri, per praticare buone relazioni, per imparare da un libro, da un concerto, da una conversazione una nuova visione del mondo che lentamente si sta imponendo.
E’ finito il tempo in cui tutti abbiamo vissuto sopra le righe; ne stiamo pagando lo scotto, in maniera pesante, per alcuni drammatica, ma da questa lezione dobbiamo trarre un vantaggio. Quello di non tornare indietro, di non ricadere nell’errore del tutto e subito, della esasperata facilità dei consumi, della superficialità nelle relazioni.
Davanti a noi abbiamo l’opportunità di ripensare uno stile di vita e l’estate è l’occasione migliore per farlo. Il suggerimento che ci sentiamo di dare è farlo partecipando; i territori di cui parliamo offrono mille occasioni per praticare la partecipazione.
Recentemente ho avuto l’occasione di visitare “Il cielo in una stanza”, la bellissima mostra fotografica di Prospero Cravedi all’Urban Center di Piacenza; mi auguro che se ne possa trarre un libro che rimanga, perché è un pezzo di storia importante per tutti. Davanti a quelle fotografie ho rivissuto gli anni in cui partecipare era d’obbligo, ma soprattutto era bello e utile. Riproviamoci, con un nuovo entusiasmo, su basi nuove, magari semplicemente varcando la soglia di una piazza e fermarsi ad ascoltare una musica.
Basta scorrere il programma degli appuntamenti estivi di Parma e Cremona, piuttosto che i Diciottoeventi di Salsomaggiore, per scoprire che non bisogna andare molto lontano per provarci e per stare bene. Basta scegliere uno dei luoghi di incontro, tra ristorantini, castelli, enoteche e piazze descritti in questo numero per cancellare il timore della solitudine che, a volte, in estate si fa più pesante.
Sono luoghi ed eventi che ci permettono di diventare più ricchi dentro. Facciamolo, ne vale la pena.


Luigi Franchi

La Locanda di Cremona, 0372/457834 facile da ricordare


La storia della Locanda di Cremona vanta almeno ottant’anni tra servizio di osteria, di albergo, di bar e fors’anche di bordello. A metà degli anni Settanta era famosa per il risotto della Franchina che, intorno alla mezzanotte, soddisfaceva gli avventori.
Ma la storia più bella è quella che compie vent’anni il prossimo 18 novembre! Fu in quella data del 1989 che i “fratellissimi” Guglielmo e Paolo Baldini riaprirono il locale e da allora, puntualmente ogni giorno, i due si ritrovano in sala ad accogliere una clientela che, dopo la prima volta, diventa come per magia fedelissima.
Il trucco c’è! Loro sono l’esempio di come deve essere un ristorante: un sorriso e una battuta per tutti, la difesa della discrezione quando serve, la forzatura nel convincere il cliente a superare alcune fisse che gli impediscono di assaggiare un determinato piatto, offrendoglielo e cambiando portata nel caso non sia di suo gradimento. Attenzione a non imbrogliare, se il piatto viene spazzolato con scarpetta annessa vuol dire che è piaciuto.
A questo si aggiunge uno chef che dalla cucina ogni giorno manda in tavola piatti quasi sempre diversi: una vera fucina creativa, che garantisce qualità delle materie prime e alcuni evergreen come le gustosissime costolette di agnello presalè.
Il locale è piccolo, pochi coperti che consigliano la prenotazione, un bancone anni ’50 da cui Guglielmo estrae poche ma ottime etichette, una sala contagiata dal buon umore di Paolo che racconta il menu scritto ogni giorno in stampatello sul bloc notes formato quaderno. Chissà se quei foglietti, negli ultimi vent’anni, li ha tenuti tutti.
Vale il viaggio, come dicono le guide, anche perché si può approfittare delle nove camere al piano superiore, a cui si accede tramite una balconata di ringhiera.
Luigi Franchi

Elena Dovani e gli oggetti che fanno compagnia


Il buon gusto, la raffinatezza, l’eleganza, il bon ton e chi più ne ha più ne metta sono le caratteristiche che balzano all’occhio non appena varchi la soglia del minuscolo show-room al tre di via Medoro Savini,nel centro storico di Piacenza.
Per chi non ha dimestichezza con la moda e il design c’è sempre il rischio soggezione ma scompare davanti al sorriso con cui Elena Dovani ti accoglie, mettendoti immediatamente a tuo agio. Forse sarà anche per questo che certi negozi dei centri storici sono in crisi? Forse un sorriso sincero, ovvero merce rara, potrebbe essere un antidoto al vuoto di certe superaccessoriate botteghe?
Il “destino” di questi luoghi dovrebbe fare un salto da queste parti per capire dove sta la differenza, lasciandosi scaraventare addosso, come Elena ha fatto con me in questa conversazione troppo bella per non essere condivisa, tutta la passione per il proprio lavoro, sopita per anni.
“Mi sono laureata in architettura quindici anni fa e poi il quadretto con laurea incorniciata è rimasto in fondo ad un armadio, perché l’attività di famiglia mi aveva assorbito completamente – mi racconta Elena – Adesso invece ho cominciato ad aprire questa bottega di idee ed applicare il principio che il design lo si deve vivere senza consentire agli oggetti di diventare troppo preziosi.” Eccolo.. il trucco magico che la rende naturalmente di fiducia: la capacità di dare il giusto valore alle cose.
“Non ho ancora completamente spiccato il volo nello straordinario mondo della creatività, da poco ho ripreso in mano la mia passione vera e adesso sto studiando e sto scoprendo. – continua Elena – Voglio fare l’architetto di interni ma ad una condizione: che la casa o le stanze che mi verranno affidate siano poi vissute, insieme agli oggetti che io proporrò al cliente. Ho visto troppe soluzioni “perfettissime” senza anima. Io voglio fare esattamente l’opposto. Voglio che gli oggetti facciano compagnia, non lo dico io io ma il famoso Achille Castiglioni. Io però voglio applicarne il pensiero.”
Lo ha fatto nella sua bella casa in campagna, sulle colline arquatesi; lo ha fatto nel suo piccolo spazio esposititivo dove gli oggetti sembra quasi che non vogliano essere acquistati, tanto fanno compagnia a chi entra. Lo farà, ne siamo certi, in ognuna delle case, delle stanze, dei giardini che le verranno affidati d’ora in poi, perché il suo sorriso è un sorriso sincero.
Luigi Franchi

Ristoratore, un mestiere artigiano


Sono tredici anni che lavorano insieme, uno in cucina e l’altro in sala, aiutati da una squadra di bravi ragazzi e ragazze, tutti giovani. Stiamo parlando di Claudio e Marco Cesena, i titolari del Relais Cascina Scottina, una struttura di grande qualità e innovazione che si trova tra Cadeo e Pontenure, a poche centinaia di metri da quella Via Emilia che da millenni è scambio di merci e punto di transito tra il nord e il sud dell’Europa.
Prima erano in un piccolo ristorante sulle colline piacentine, all’Osteria della Pesa di cui si sono portati appresso il marchio quando sono scesi a valle; da due anni hanno aperto questa struttura diventando in pochissimo tempo punto di riferimento.
“Fare il nostro mestiere vuol dire essere in prima linea nella promozione del territorio. – affermano Claudio e Marco – Significa essere al contempo selezionatori e testimoni della qualità delle materie prime che la nostra terra offre, trasformarle esaltandone le caratteristiche, raccontarle nel momento in cui si portano in tavola i cibi e i vini.”
Un legame molto saldo che lascia trasparire una vera e propria artigianalità del mestiere, identificabile qui più che altrove nel fatto a mano come principale risorsa, nella memoria come ricchezza intellettuale, nella cultura del territorio come processo dinamico.
“In Francia – prosegue Marco – ai ristoratori e agli chef viene affidato il compito, in maniera estremamente naturale, di testimonial della tradizione e della cultura territoriale. Sono loro i primi attori di ogni azione promozionale. Non a caso ogni ristorante che si rispetti mette a disposizione anche alcune camere, perché esistono turisti che affrontano il viaggio e scelgono la destinazione partendo dal desiderio di andare in quel ristorante. Questo genera una ricaduta positiva per tutto il territorio.”
Perché allora non sviluppare questa idea anche qui? Perché non pensare ad una ristorazione artigiana, geneticamente diversa dalla ristorazione industriale e dal resto del mondo della somministrazione. Una ristorazione come quella dei fratelli Cesena che, ad ogni stagione cambiano il menu mettendo in cima alla lista piatti che tengono conto del territorio, puntando a promuovere il consumo in loco delle materie prime, risparmiando dunque su costi di approvvigionamento che diventano competitivi perché riducono le spese di trasporto ma anche i costi di quell’inquinamento che il trasporto genera.
Questo modello, se applicato come modello organizzato, darebbe vita ad un vero processo di filiera tra produttori, trasformatori e consumatori, un’arma vincente per promuovere nel modo migliore il paniere agroalimentare piacentino.
“Esistono valori incentrati su competenza, cultura, arte dell’ospitalità che troppo spesso vengono messi in secondo piano nel nostro lavoro. – prosegue Marco – Noi abbiamo invece deciso che devono rappresentare la nostra forza identitaria. Tutto il nostro personale, di sala e di cucina, nel momento in cui approccia al piatto, sia nella preparazione che nella presentazione, si è abituato a tenere a mente questi valori e tutto questo sta facendo la differenza. Ma questo comincia molto prima, al banco della reception dove al cliente raccontiamo chi siamo, cosa gli possiamo proporre per rendere piacevole il suo soggiorno, quali sono gli elementi di appeal del nostro territorio, enogastronomia in primis.”
In pratica un valido e concreto aiuto ai clienti nell’orientare le loro scelte e soddisfare le loro aspettative, soprattutto in periodi di crisi come quella che si sta attraversando dove le persone stanno modificando in maniera radicale le loro abitudini.
”Ognuno di noi non rinuncerà del tutto a privarsi di momenti di svago e di piacere. – afferma Claudio – Tutto però diventerà di vicinato: la scelta di un viaggio, la riscoperta della memoria e delle tradizioni. Allora non ha senso proporre, a chi sceglie di fare pochi chilometri per una breve vacanza, piatti composti da materie prime che arrivano dall’altra parte del mondo. Per il prossimo autunno intendiamo dar vita ad una serie di menu a chilometro zero che vedano il coinvolgimento dei produttori locali, confermando che la creatività in cucina può essere soddisfatta, per esempio, anche con le castagne del nostro Appennino.”
Non occorre aspettare l’autunno perché l’estate al Relais Cascina Scottina significa godere di una straordinaria corte rurale riportata al giusto valore, seduti all’aperto tra piante di fichi e profumi di rose, ad assaporare quest’idea di cucina, con la giusta attenzione alla stagionalità, condizione essenziale per ogni ragionamento di gastronomia di qualità e di rispetto della natura e dell’ambiente.


Luigi Franchi

Il piacere della conversazione


“Sono nato in Via Medicine che allora si chiamava Strada della Medicina al numero 1 ed era la prima casa di Modena”, comincia così la lunga e piacevole conversazione con Adriano Grosoli, che attraversa la storia dei suoi ottant’anni.
Il primo ricordo risale alle caramelle che aveva cercato di salvare quando un’alluvione aveva allagato la cantina in cui riposava l’aceto balsamico tradizionale. Quel ricordo è la testimonianza storica della tradizione di una famiglia che ha sempre avuto a che fare con il prestigioso prodotto modenese.
“Mio nonno Adriano aveva aperto una salumeria a Spilamberto nel 1891, si chiamava Premiata Salumeria Adriano Grosoli e, dopo anni, sono riuscito a recuperare l’attestato rilasciato dalla Camera di Commercio che ora fa mostra di sé insieme al Gran Premio medaglia d’oro all’Esposizione Internazionale di Genova alla fine dell’Ottocento.”
Più di un secolo di storia, impresso nei ricordi del signor Adriano che li centellina nel corso delle nostre lunghe conversazioni, saltando da un periodo ad un altro ma mantenendo sempre l’attenzione sull’aceto balsamico, con cui ha condiviso la sua felice esistenza.
Non a caso uso questo termine, infatti Adriano ha una bella faccia, aperta, serena, un viso che la dice lunga sulle fatiche ma ancor di più sulle soddisfazioni che la vita gli ha dato.
Come quando parla della moglie Luciana: “abitava a due passi da casa mia, ci vedevamo praticamente sempre, fin da piccoli. Da adolescenti i miei amici mi prendevano in giro perché io continuavo a parlare di lei, a stare con lei. A loro dicevo lasciate che passino gli anni e vedrete. Poi mi dissero sempre: avevi ragione. Mia moglie è una donna splendida, bellissima. Ci siamo sposati nel 1955, io avevo ventisei anni e da allora abbiamo condiviso ogni cosa.”
Fu con lei che decise di aprire una gastronomia a Modena, fu sempre con lei che iniziò la straordinaria avventura dell’Aceto Balsamico del Duca.
“I nomi storici dell’aceto balsamico di Modena vengono tutti da dietro un banco: Giusti, Fini, Federzoni, noi. Prima mio nonno Adriano, poi mio padre Mario che faceva il macellaio ma aveva comunque una batteria di aceto balsamico tradizionale e ventitré barili di aceto balsamico. Infine io che gestivo una gastronomia a Modena. – racconta Adriano – Nel 1972, insieme a mia moglie, a mio cognato e con l’aiuto della signora Annamaria che lavora ancora con noi, decisi di ritornare ancora qui, in Via Medicine, a dar vita a questa azienda. I primi anni al mattino io e mio cognato andavamo in giro a vendere, io stavo ancora anche in gastronomia, al pomeriggio in azienda ad imbottigliare finchè ci dedicammo tutti, anima e corpo, solo all’Aceto Balsamico del Duca.”
Un container per l’America contenente bottiglie da mezzo litro, rivestite da un nastrino tricolore e accompagnate da un libretto con la riproduzione del Duca Francesco I d’Este, tra i più famosi e appassionati produttori e consumatori di quel “balsamo” molto apprezzato alla corte degli Estensi, fu il primo grande risultato di mesi e mesi di fatica.
“Fino a ventisette anni fa il mio unico viaggio all’estero era stato nella Svizzera Italiana. – ricorda il signor Adriano – Nel 1972 invece partii con una missione di imprenditori, organizzata dalla Camera di Commercio di Modena, alla volta di New York. Non sapevo una parola di inglese.”
Da allora ha raccontato, con i gesti, con le parole, con la mia faccia e con l’assaggio del prodotto a migliaia di persone l’Aceto Balsamico di Modena. Sempre accompagnato da sua moglie Luciana che, all’inizio a malincuore, rinunciò alla sua bottega di gastronomia. “Stai tranquilla, che riusciremo a fare una cosa fatta bene”, gli diceva Adriano.
Così è stato e la dimostrazione è sotto gli occhi di tutti!

Luigi Franchi

Da Faccini salumi e vini fini


Sono ormai più di settant’anni che esiste Faccini, sempre lì sul piazzale antistante la chiesa di Sant’Antonio, il patrono degli animali. Il legame con il santo da Faccini lo si festeggia ogni anno, nella sera del 17 Gennaio, con una grande cena a base di maiale. Ma questa è solo una delle tante tradizioni che vivono grazie alla radicata presenza di questo ristorante, con annessa bottega alimentare dove si acquistano i salumi che Massimo seleziona personalmente, curandone la perfetta stagionatura. In sala e in cucina le sue sorelle, Barbara e Paola, rappresentano la terza generazione di una famiglia di osti, di quelli di una volta che ti fanno sentire sempre a tuo agio quando sei nel loro locale. Fu Giacomo Faccini che aprì il luogo di sosta e di ristoro nel 1932, una decisione che venne proseguita dal figlio Francesco, con sua moglie Albertina regina della cucina per decenni.
Da Faccini si gusta la vera cucina tradizionale piacentina, con le paste fatte a mano da Paola e Barbara e dalle loro aiutanti storiche. Soprattutto si beve bene, grazie alla accurata selezione che Massimo fa della miglior produzione piacentina. D’estate pochi tavoli antistanti l’ingresso del ristorante permettono di trascorrere serate piacevolissime all’insegna del buon gusto.
Mani femminili per governare la cucina, prima quelle di mamma Albertina, poi quelle di Paola e Barbara, aiutate dalle signore del posto. Mani sapienti che sanno riconoscere, al semplice tocco, il giusto grado di morbidezza dell’impasto per fare le paste tipiche della cucina piacentina. Oppure occhi che sanno distinguere la freschezza di verdure e carni che compongono i secondi piatti, un tempo più robusti, della tradizione. Infine il gusto..dell’equilibrio nutrizionale, della composizione, degli abbinamenti.
Sono i primi ingredienti della cucina della generazione Faccini.
Tra i piatti: salumi tipici e tradizionali piacentini, tortelli di ricotta e spinaci, tortelli di zucca, tortelli ripieni al culatello, pisarei e faso’, anolini in brodo di terza, pappardelle al cinghiale o alla lepre, coppa arrosto, faraona alla creta, brasato di cinghiale con polenta, arista al Gutturnio, funghi alla griglia (in stagione), torte e dolci al cucchiaio fatti in casa, nocino e bargnolino della casa.


LF

Rispetto, conoscenza e considerazione


Innamorarsi è una delle grandi fortune della vita! Comincia così la conversazione sotto il portico antistante la gelateria Coccole, in una giornata uggiosa di primavera. Ed io che sono venuto per parlare del gelato ottimato mi ritrovo a conversare con Giovanna Bosto, da tredici anni produttrice di gelati artigianali, dei valori che muovono il mondo e le persone.
“Si, io sono innamorata di ogni cosa che faccio, sono innamorata del contatto con le persone che questo lavoro mi consente di avere, sono innamorata del mio locale che ho aperto tredici anni fa, dopo che ho smesso di fare a ristoratrice di punto in bianco..perchè quando non si ama ciò che si fa è meglio cambiare, cambiare subito se si può.” sostiene Giovanna.
Lei lo ha fatto, ha ceduto la sua quota e una settimana dopo ha cominciato a capire tutto del gelato, gli ingredienti, la storia, i gusti e le tecniche, i prezzi e le materie prime, ha fatto corsi senza l’ambizione di fregiarsi di titolo alcuno di maestro gelatiere.
“Se sono brava non ho bisogno di attestati, se sono brava lo sono davvero e basta.” Lo è, lo confermano un mucchio di persone che scelgono i suoi gelati, lo confermano le persone che, nel volgere dell’intervista, sono passate di lì solo magari per un saluto e lei non ha mai rinunciato a dedicare loro il tempo, quello buono.
“Ognuno di noi ha bisogno di sorridere e di far sorridere” se ne esce Giovanna. Che c’entra con il gelato, sto per chiederle ma non faccio (per fortuna) in tempo. “Il gelato è questo, un sorriso. Non per caso ho voluto chiamare il locale Coccole, un luogo dove uno potesse venire e sorridere. E la soddisfazione più grande è vedere come è cresciuto il rapporto umano con i miei collaboratori (oggi sono nove) nel corso degli anni; come da ragazzini al primo mestiere siano diventati orgogliosi di quello che fanno e bene.”
Ecco che esce ancora una volta l’anima vera dell’artigiano, della persona legata al proprio lavoro, in grado di instaurare un dialogo con i collaboratori e con i clienti, capace di identità.
“Per me avere identità è vivere la professione in una fase di costante sviluppo. – afferma Giovanna – Fare un buon gelato, che si sappia distinguere da una produzione massificata, e riconosciuto come tale dal grande pubblico, occorre studiare e studiare e studiare. Occorre avere rispetto, conoscenza e considerazione della materia prima.”
Ma come si riconosce un gelato buono da uno prodotto in serie? “Facendo proposte prepotenti, in termini di qualità e di ricerca. – afferma Giovanna Bosto – Ma soprattutto, almeno per me, prima bisogna vendere amore per ciò che si produce e acquisire maggiore identità. Così e solo così il consumatore si ricorderà in maniera indelebile di ciò che ha mangiato, del luogo dove lo ha mangiato.”
Sta tutta qui la differenza su come riconoscere la qualità, nella testa e nelle mani e nel cuore di chi la pratica mettendola al centro di tutto. Con questo spirito Giovanna Bosto un giorno ha salito le scale che conducono all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza per sottoporre ai docenti un quesito causato da una molla che, all’improvviso come ogni grande amore che si rispetti, le era scattata dentro.
“Avvertivo e avverto tuttora l’esigenza di affrontare i temi dell’alimentazione e i conseguenti prodotti da un punto di vista innovativo. – ci racconta – Fu lì che scoprii il grande valore scientifico della ricerca che, nel mio caso, ha significato dar vita al gelato “ottimato”. Un gelato con meno grassi e più proteine, pur partendo dagli ingredienti di sempre.”
La novità della scoperta sta nella formula che mette il gelato ottimato in linea con i principi della dieta mediterranea; una formula e mix di esperimenti teorici, su cui hanno lavorato per molti mesi un’equipe di ricercatori coordinata dal professor Attilio Del Re. La gelateria Coccole è stata il teatro della presentazione di questa ricerca.
Ma come scrivevo all’inizio per Giovanna la ricerca, la curiosità e l’innamoramento non hanno mai fine e per questo continua a salire le scale dell’Università, ma non per salire in cattedra bensì per dar corpo, insieme a docenti e ricercatori, ad un nuovo progetto. Ma questa è un’altra storia su cui ritorneremo.
“Di una cosa sono certa. – conclude Giovanna – Noi artigiani abbiamo poco tempo da perdere ma tanto per costruire insieme tante cose belle, buone, fatte bene. E’ importante che cresca e si propaghi questa consapevolezza; perché insieme si vale di più.” Un auspicio che vogliamo rilanciare, sperando che venga raccolto.
Luigi Franchi


Il Gelato Ottimato® come pasto completo

Mangiare il gelato è un piacere. Alla fine di un pasto. Come spuntino. Sempre.
Ma il gelato può essere anche un pasto, o almeno un piatto importante del pasto, purché non sia solo una golosità ma anche un buon alimento: un alimento che nutre e dà al corpo umano tutto quello che il corpo vuole. La dietologia ci insegna che uno degli stili alimentari di maggiore successo è l’alimentazione Mediterranea.
Ebbene, il gelato può essere trasformato in un alimento bilanciato secondo la dieta Mediterranea: il Gelato Ottimato. Dopo l’ottimazione, le sostanze nutrienti sono: 18% di proteine, 16% di grassi e 66% di zuccheri (in peso; o, se preferite, 15% di proteine, 30% di grassi e 55% di zuccheri in kCalorie). Questi rapporti sono tipici della dieta Mediterranea.
I gelati ottimati sono progettati dal Professor Attilio Del Re, ordinario di Biochimica e docente di Chimica fisica degli alimenti nell’Università Cattolica di Piacenza.
La realizzazione è merito di Giovanna Bosto, eccezionale artigiana del gelato ben nota per la sua gelateria “Coccole” di S. Giorgio Piacentino.
I gelati ottimati sono adattamenti di ricette tradizionali italiane, risalenti agli inizi del secolo scorso, raccolte da Giovanna Bosto ed interpretate in base alle conoscenze alimentari moderne e migliorate nella loro funzione nutrizionale. In questo senso il Gelato Ottimato è un alimento funzionale.
www.cucinaottimata.com/blog/info/

Un po' di salute e tranquillità


“…alquanto poco aceto modense, dalla sperimentata efficacia rinfrescante e balsamica, riuscì in breve lasso di tempo a ridare un po’ di salute e tranquillità..”
Gioacchino Rossini

Risale alla prima metà dell’Ottocento la notizia più curiosa sull’aceto modenese che,probabilmente, diede origine al nome di Aceto Balsamico, facendo leva sulle sue proprietà terapeutiche.
Sempre in quel periodo, esattamente nel 1839, il conte Giorgio Gallesio, studioso dell’epoca famoso per la sua imponente opera “La Pomona Italiana”, importante trattato di arboricoltura, descriveva nel “Giornale di agricoltura e di viaggi” i suoi studi sulle tecniche di produzione dell’Aceto Balsamico che ebbe modo di apprendere presso la residenza dell’amico Conte Salimbeni di Nonantola. I suoi appunti costituiscono, con ogni probabilità, il documento tecnico più antico in cui si descrive il disciplinare di produzione dell’Aceto a Modena. Infatti Gallesio per primo classifica gli aceti in due categorie ben distinte: quelli ottenuti da solo mosto cotto e quelli da mosto fermentato e vin fatto, definendo il primo come “eccelso”, l’altro come “pure eccellente”.
Da allora la tecnologia ha contribuito ad aumentare gli aspetti legati alla sicurezza alimentare del prodotto ma la sua storia e le tecniche di produzione sono rimaste pressoché intatte. Così come le sue proprietà organolettiche e salutistiche.
Mentre per la storia e le tecniche di produzione esiste una diffusa conoscenza, meno informazioni circolano in merito alle proprietà dell’Aceto Balsamico di Modena.
Ad esempio in pochi sanno che l’aceto appartiene alla categoria degli alimenti nervini, ovvero quei cibi considerati eccitanti alla stregua di caffè, tè e cacao; l’aceto, infatti, agisce stimolando il sistema nervoso centrale e, in tal modo, influisce sui processi di digestione e di assorbimento degli alimenti. Questo vale in parte anche per l’Aceto Balsamico di Modena che comunque merita un capitolo a parte nella storia e nelle caratteristiche della categoria, a cominciare dal fatto che esso rappresenta una vera e propria delizia per il palato e ben si presta a numerosissime occasioni di consumo.
L’Aceto Balsamico di Modena è uno dei prodotti più indicati per una dieta, ad esempio come sostituto dell’olio in tutte quelle portate in cui serve un condimento. L’apporto calorico dell’Aceto Balsamico è pari a 25/30 kcal/100 gr rispetto alle 900 dell’olio di oliva; questo risparmio non incide tra l’altro sul gusto, anzi in molti casi contribuisce ad esaltare la bontà del piatto.
Ogni 100 gr di Aceto Balsamico di Modena sono composti da: 88 calorie, 76,45 acqua, 0 grassi, 0,49 proteine, 17.03 carboidrati, 0 fibre, 100% edibile.
Per assimilare al meglio le proprietà dell’aceto balsamico è consigliabile seguire i suggerimenti delle antiche tradizioni contadine che prevedono l’assunzione di un cucchiaio ogni mattina a digiuno. In tal modo si sviluppa un'azione anticancerogena preventiva, si integrano le vitamine E e C.
Inoltre gli antichi detti affermano che “spegne la sete, aggredisce la febbre, assale le infezioni, mitiga le infiammazioni. Imbevuta d'aceto e masticata lentamente, una zolletta di zucchero fa cessare il singhiozzo e calma la pertosse. Libera il naso tappato dal raffreddore e la testa appesantita dall'aria viziata.”
Elemento determinante per una alimentazione sana, l’Aceto Balsamico di Modena fa bene per la forte presenza nel prodotto di polifenoli, di cui è scientificamente provata l’importante azione antiossidante e di pulizia del sangue dai radicali liberi. Inoltre stimola, grazie alla sua acidità, la secrezione dei succhi gastrici e una buona salivazione, mettendo l’organismo in una buona condizione di digestione. Infine un altro aspetto non trascurabile, generato dall’uso costante e controllato di Aceto Balsamico di Modena, è dato dalla ridotta produzione di acido cloridrico e conseguente calo del rischio gastrite.


LF

Ortrugo e Chisöla


La prima volta è stato un successo, quest’anno si replica con l’aggiunta di nuove iniziative e la presenza di un numero crescente di produttori. Stiamo parlando di “Ortrugo e Chisöla”, la rassegna che celebra i due prodotti enogastronomici più amati a Borgonovo Val Tidone, nel cuore della vallata piacentina vocata al turismo enogastronomico, in programma Domenica 6 Settembre.
La rassegna, inserita nella storica Festa d’la Chisöla giunta alla 44° edizione, intende esaltare l’abbinamento tra la tradizionale focaccia con i ciccioli e il vino bianco autoctono dei Colli Piacentini. Un abbinamento che è la conseguenza naturale delle abitudini enogastronomiche di una comunità che ha, con la tradizione e con la terra, un lungo fecondo rapporto.
La chisöla vanta le sue origini in Val Tidone ed è un piatto povero della tradizione contadina, quando il pane e i suoi derivati si preparavano nel forno di casa.
Nel Piacentino, ed in particolare in Val Tidone, la preparazione del pane fatto in casa è stata pratica comune fino a pochi anni fa; ancor oggi alcune persone stanno riprendendo questa abitudine (in particolar modo negli agriturismi), per una sorta di gratificazione del saper fare da soli e per la ricerca del gusto che vuole difendersi dall’omologazione.
La chisöla viene preparata con l’impasto classico del pane a cui vengono aggiunti ciccioli, lievito, olio, strutto, acqua e sale. La forma è quella di dischetti alti circa mezzo centimetro: insuperabile se consumata non appena viene sfornata, può essere accompagnata con i salumi della tradizione piacentina. Con la farina, il lievito di birra e un po’ d’acqua tiepida, almeno dodici ore prima, si fa un panetto, lo si mette in una ciotola con il fondo cosparso di farina bianca, e lo si copre con altra farina e tenendolo in un luogo caldo.
In una padella si fanno soffriggere i ciccioli con lo strutto e qualche cucchiaio d’acqua, nel caso in cui dovessero seccare troppo. Si dispone poi il resto della farina bianca a fontana sulla spianatoia, si mette al centro il panetto di lievito con l’acqua tiepida e il vino; si impasta e si lavora per alcuni minuti e quindi si aggiungono all’impasto i ciccioli. Si lascia quindi riposare l’impasto per almeno un’ora.
L’Ortrugo invece è il vino autoctono per eccellenza dei Colli Piacentini, riscoperto negli anni ’70, prende il suo nome dal termine dialettale ètr’uga (altra uva); è un vino bianco, abitualmente frizzante, che era presente dall’inizio del secolo sulle colline della Val Tidone, progressivamente sostituito dai vigneti di Malvasia. Negli anni ’70 alcuni produttori ne salvarono le barbatelle, iniziandone le prime vinificazioni in prezza.
Il suo gusto lievemente salato, fresco ed estremamente piacevole lo rende il compagno ideale per le occasioni di relax.
La dinamica Pro Loco di Borgonovo Val Tidone, che organizza da sempre la Festa d’la Chisöla, ha pensato di dar vita alla rassegna che celebra il legame tra Ortrugo e Chisöla, rappresentando in maniera originale il territorio.
L’evento, inserito nel programma della Festa d’la Chisöla, si svolgerà Domenica 6 Settembre 2009, con la partecipazione di decine di produttori piacentini di Ortrugo che, nei loro banchi d’assaggio, faranno degustare il vino bianco nelle sue diverse tipologie, in abbinamento alla popolare ricetta inserita nell’ nell’albo dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani e iscritta nel registro De.Co. (Denominazione d’Origine Comunale) del Comune di Borgonovo.
Oltre ai banchi dei produttori l’abbinamento verrà presentato in degustazioni guidate dai sommelier AIS e FISAR e la chisöla sarà il naturale accompagnamento degli “Ortrugo Cocktail” proposti dagli esercizi pubblici del territorio comunale.

Andrea Molinari e Alessandro Stabile: vignaioli


Die 5 semptember 1732. Chissà cosa si faceva, chi ci abitava, chi l’aveva costruita, se c’erano vigneti o sterpaglie, se si vedeva il magnifico skyline delle torri medievali come si vede adesso dalla torretta di questa casa rurale ai piedi di Castell’Arquato.
Sono le domande che mi pongo ogni qualvolta mi imbatto in tracce certe del passato che segnano una data, un accadimento. Un pensiero comune a molti che stimola la fantasia: a volte è più bello immaginare che conoscere.
La casa in questione si chiama Casa Benna ed oggi, o meglio dal 1916, è sicuramente un’azienda agricola; adesso è d’obbligo l’aggettivo modello ma molto probabilmente lo era anche allora perchè la qualità la fanno sempre le persone e la storia della famiglia Molinari è un esempio di questo.
Nel pieno di una guerra mondiale Pietro Molinari investe in una porzione di terreno a fondovalle, dove la buona esposizione al sole fa ottime le uve. Dalle colline di Montezago, piccolissima frazione di Lugagnano, si sposta con la moglie a Castell’Arquato.
Pur in un momento non particolarmente felice per l’economia e per la società italiana Pietro e Irma mettono al mondo otto figli: Giovanni, Maria, Anna, Camillo, Pino, Luigi, Franco, Pina.
Pietro viene purtroppo a mancare presto e Irma si fa carico di tutto, come molte donne in quel tempo. La sua soddisfazione è probabilmente stata quella di aver dato una laurea o un diploma a tutti i suoi figli.
Uno di questi, Giovanni, divenne geometra, lavorò in Comune a Lugagnano e ne divenne sindaco negli anni ‘60, ancor oggi ricordato per la sua rettitudine e attenzione verso i suoi concittadini. Da geometra poi sindaco, Giovanni decise di dedicarsi a tempo pieno alla cura dell’azienda agricola, appassionando e facendo appassionare al vino i suoi figli ma anche molte persone che vantano primati di fedeltà ai vini di Casa Benna, come Giovanni Raggi cliente da più di trent’anni o il Ristorante Da Faccini che ha in carta Casa Benna dal 1985.
Fu Giovanni uno dei soci fondatori del Consorzio Vini Doc Colli Piacentini e dell’Enoteca Comunale di Castell’Arquato, fu sempre lui che nel 1970 imbottigliò la prima bottiglia di Gutturnio fermo, doc da soli tre anni. E fu lui a dare un nome alla “vigna di Andrea”, dove si portava il figlio mentre lui potava, puliva, curava i suoi filari.
“L’asilo te lo faccio io nella vigna”, questa è la prima frase che Andrea si ricorda a quattro anni, detta da suo padre. Con quelle premesse diventa dura fare dell’altro. Infatti Andrea, laureatosi in ingegneria informatica nel 1996, prende in mano le redini dell’azienda e la fa crescere, in qualità e in onestà dei suoi vini. Cosa significa onestà? Significa che se un’annata non è buona lui non fa per forza quel vino.
Significa che il vino lo si fa in vigna e il passo è adeguato alla gamba, reinvestendo anno dopo anno i guadagni (pochi per le trentamila bottiglie di oggi, immaginatevi le 4.000 di vent’anni fa). Ma soprattutto significa che, arrivati in azienda per assaggiare i vini, si percepisce qualità, cura e amore in ogni dettaglio.
Per anni ha fatto tutto da solo, in parte aiutato da sua mamma: potare, innestare, tenere in ordine vigna e cantina, imbottigliare, vendere. Solo in periodo di vendemmia si avvale di lavoranti.
Oggi assieme a lui c’è suo nipote Alessandro, ventisei anni perito meccanico, stessa passione, stessa filosofia.
Basse rese per ettaro (un terzo rispetto a quello che consente il disciplinare), poche tipologie di vini (quattro in tutto, con il Gutturnio nelle sue tre versioni), grande attenzione al lavoro tradizionale in vigna (adesso, mentre sto scrivendo, Andrea e Alessandro stanno potando a mano, per tutto l’inverno), un uso sapiente della tecnologia in cantina, la collezione degli antichi attrezzi nella sala dove si accoglono i clienti e gli amici.

Luigi Franchi

Meno male che c’è il maiale


Sapori e profumi, storia e leggenda. La parmense Federica Pasqualetti, oltre a tracciare un bilancio circa gli allevamenti italiani non tralasciando le qualità della carne e le peculiarità delle varie razze suine, propone infatti favole d’altri tempi e informazioni reali sulle tradizioni lontane. Oltrepassando quindi i confini di un ricettario che soddisfa le aspettative dei golosi, fornisce direttive e consigli per la preparazione di 29 antipasti, 24 primi piatti e 47 secondi a base di maiale. Sfogliando il volume viene l’acquolina in bocca, visto che gli occhi incappano in pietanze semplici ma saporite come cotechino o braciole e in piatti più elaborati come lonza ai capperi o zuppa di canederli allo speck. Ma anche un’attempata (ma mai dimenticata) polenta con lardo o uno ‘scontato’ panino col salume, fanno condividere l’apprezzamento di Gabriele D’Annunzio, che in una lettera citata dalla stessa Pasqualetti scriveva: “Grazie per quella salata e rossa compattezza porcina che senza pudore tu chiami culatello”.
Meno male che c’è il maiale
Federica Pasqualetti
Mup Editore
€ 15

Il Novecento di Bertolucci rivive nelle Piacentine


Il luogo, per chi ha almeno cinquant’anni, è collegato alle riprese di Novecento, il film di Bernardo Bertolucci girato nel 1976, che racconta la cultura contadina e la lotta di classe: Le Piacentine, perfetto esempio di corte padana e della vita comunitaria che vi si svolgeva, oggi è un luogo che, grazie al sapiente lavoro di recupero effettuato, svolge un’importante funzione di memoria e genera una sensazione di pace.
Fino a mezzo secolo fa in questa corte nei pressi di Roncole Verdi, come ben rappresentato da Bertolucci, vivevano decine di famiglie, di quelle numerose, con le porte di casa sempre aperte, con la condivisione di umori, litigi, lavoro, solidarietà.
Un mondo che non esiste più, sostituito da unità abitative che, anche quando sono ricavate in vecchi edifici rurali, hanno porte blindate, sbarre alle finestre e tra vicini di casa ci si conosce a malapena.
Per queste antiche corti padane si dovrebbe vincolare il rilascio della licenza edilizia alla condizione di vivere secondo normalità.
Ma torniamo alle Piacentine e alla sua storia che risale al 1820, da sempre azienda agricola chiamata “Corte delle piacentine”, una grande aia in centro lastricata di cotto originale del tempo. L’aia, nelle case coloniche, era uno spazio antistante o, come in questo caso, il centro dell’edificio, dove si batteva il grano, nel periodo della mietitura.
Un centro attorno a cui si sviluppava la vita delle famiglie che vi abitavano, dalle prime luci del mattino a notte fonda, nelle sere d’estate. Sull’aia si celebravano i banchetti nuziali, le feste patronali o quelle legate al ciclo delle stagioni. Ma sempre lì ci si incontrava, i bambini numerosi, si rincorrevano, ci giocavano, si picchiavano salvo poi tornare a fare pace, come le famiglie. La convivenza forzata era un deterrente straordinario per placare gli animi.
Ma la particolarità delle Piacentine è la sua perfetta integrazione con il paesaggio circostante, un paesaggio dove la mano dell’uomo, da millenni, ha inciso profondamente condizionandone profondamente l’utilizzo e la memoria. Come scrive Monica Bruzzone, assegnista all’Università di Parma, nel suo saggio “Allestire le identità culturali…” «Una delle più antiche e maestose modifiche che ancora oggi segna i campi coltivati nella pianura padana appartiene all'epoca romana. Nella divisone dei terreni agricoli i romani hanno effettuato una partizione artificiale del territorio, fatta di linee rette ortogonali tra loro, punteggiata da bassi muri di pietra, da filari di alberi, da percorsi e canali. L’agro centuriato è il paesaggio artificiale che contraddistingue la pianura. Esso colpisce, se lo si osserva dall’alto, per la fortissima eterogeneità di colori e di toni che scandisce il terreno in maniera fortemente artificiale. Una rettificazione imponente che cambia la fisionomia di intere regioni, eppure resta un segno silenzioso a livello del terreno, mentre gli elementi verticali che lo definiscono, sono i filari degli alberi, le torri colombare delle corti agricole, ma anche le incisioni dei canali di irrigazione. Segni di piccola scala, che si rapportano efficacemente con la misura del paesaggi».
Camminando ai lati della perfettissima struttura quadrangolare delle Piacentine, davanti alle case che un tempo erano dei contadini, lungo i porticati che ricoverano gli attrezzi, oppure passando davanti alla casa padronale viene da pensare come un luogo possa assolvere alla funzione di valorizzazione dei valori territoriali e culturali. Viene da immaginarsi le storie di cui sono impregnati i muri e il cotto dell’aia: storie semplici, di gente semplice che faceva leva sulla memoria orale per tramandare esperienza e storia delle genti. Ma comunque storie uniche.
Adatte ad arricchire il valore di unicità che l’ottimo lavoro di restauro ha restituito alle Piacentine, che può costituire un primo passo verso la possibilità di mettere in scena vocazioni del passato come opportunità di sviluppo.
Del resto la struttura si trova nel cuore di un territorio, la Bassa Parmense, che sul passato sta costruendo il proprio presente economico e culturale. La dimostrazione arriva dalla capacità di identificarsi ancora con il Mondo Piccolo di guareschiana memoria, piuttosto che di incentrare la propria identità sulla particolare gastronomia del luogo.
LUIGI FRANCHI


Le Piacentine raccontate da Lorenzo Molossi
Lorenzo Molossi nel suo «Vocabolario topografico dei Ducati di Parma, Piacenza e Guastalla» Parma 1832, a pag. 460, così scrive intorno al cascinale delle Piacentine:
«Nel luogo delle Piacentine, lungi un miglio all'est della Chiesa di Roncole, sulla strada da Busseto a Soragna, si sta costruendo una grandiosa villeggiatura da S. E. il Sig. Principe D. Giovanni Vidoni de Soresina, personaggio non meno chiaro per sangue che per la liberalità dell'animo e per le cognizioni apprese sul libro del mondo di cui egli ha percorso la maggior parte.
Gli edifici sono divisi su quattro lati attorno ad una grande ala. Sorge dalla parte di mezzodì il palazzo del Signore ove si ha la vista delle colline e su questo stesso lato si innalzeranno e l'Oratorio e una vasta bigattiera con altri servizi; dalla parte opposta vedesi l'ampia stalla il cui volto è tutto sorretto da colonne di granito; sugli altri due lati stanno le case e del fattore e dei villici con varie botteghe. Tutto è disegno e direzione del celebre architetto Vogherà, cremonese, il che dire dispensa da qualunque elogio dell'opera».
In appendice al volume del Molossi sono riprodotti gli schizzi della pianta e delle sezioni di questa imponente costruzione che nella mente del Principe Vidoni doveva costituire, in quei tempi, un modello di stabilimento agrario con annessa residenza padronale.