domenica 14 ottobre 2012

Osare e sognare


“La tradizione rende l’orecchio curioso”. Lo sostiene Teresa Covaceuszach, cuoca e proprietaria insieme al marito Franco Simoncig, della trattoria Sale e Pepe di Stregna, un minuscolo borgo a pochi minuti dal confine con la Slovenia e, proprio questa linea di confine fa dire a Teresa un’altra importante verità: “Avere una lingua in più, una cultura in più, arricchisce”.
Teresa Covaceuszach ha abbandonato, venticinque anni fa, un lavoro di ufficio ed è ritornata nella sua terra: ha bussato alle porte delle abitazioni e si è fatta raccontare dalle donne del paese, ormai anziane, leggende e ricette. Poi le ha trasferite nel suo locale, già esistente e adibito ad osteria del paese, unico ritrovo sociale che ha mantenuto la sua funzione. Ha piantato l’orto da cui ricava l’essenza della sua cucina. Ha adottato una mucca dal suo amico Rino di Montefosca per non perdere quel latte e quella ricotta. Bisogna andarci apposta a Stregna, così come bisogna andare apposta in ognuno dei luoghi, dei ristoranti, delle cantine e degli artigiani del gusto che costellano il Friuli Venezia Giulia, fuori dai grandi itinerari del turismo di massa e ricchi di tutto quello che contribuisce al piacere della vita. Piccole e grandi realtà gastronomiche che, per farsi conoscere ancora di più, hanno deciso di riunirsi in un consorzio: Friuli Venezia Giulia Via dei Sapori.
Venti ristoratori attorno a cui si sono coagulate ventidue cantine, e un ricco manipolo di artigiani del gusto. Questa è la composizione che si è formata attorno al progetto guidato da Walter Filipputi, giornalista, sommelier, docente universitario e scrittore di storie del Friuli Venezia Giulia: “Bisogna osare e bisogna sognare. Lo dico sempre anche ai miei studenti. Qui lo abbiamo fatto, grazie a persone intelligenti e imprenditori veri che si sono scelti loro, chi ci sta ci sta, coagulandosi attorno ad un’idea: il territorio come base per la fornitura delle nostre materie prime. Un patrimonio che non deve essere disperso. Sommando quanto appena detto ci dà la misura del progetto Friuli Venezia Giulia Via dei Sapori che, in sintesi, significa dare il proprio contributo alla crescita del territorio d'appartenenza affinché possano essere valorizzate tutte le sue componenti che possono concorrere al successo del proprio lavoro. Per farlo serviva una mentalità non individualista, ma capace di fare sistema al fine di raggiungere la massa critica, anche finanziaria, per varare e sviluppare progetti di un certo peso ed efficacia”.

 
Gli umori antichi del mediterraneo

Il risultato è un gruppo fortemente coeso che organizza eventi di presentazione di quello che offre questa regione sotto il profilo gastronomico ed enologico. Lo si scopre sfogliando i 2,7 chilogrammi di un libro che racconta e guida alla scoperta: “Artefici di tanto ben di Dio sono centinaia di eroi silenziosi, come li chiama Walter Filipputi. Uomini e donne a cui appuntare sul petto la medaglia al valor patrio per la dedizione con la quale si applicano per custodire e trasmettere il meglio dei prodotti che fanno di un territorio una sapida civiltà” scrive il sociologo Ulderico Bernardi nell’introduzione al libro I solisti del gusto.
Una sintesi perfetta di come ognuno di loro contribuisca a valorizzare una terra sospesa tra l’Adriatico e i Carpazi che, ovunque ti giri, sembra assorbire gli umori antichi del Mediterraneo, come riescono a trasmettere, con la loro cucina, i fratelli Max e Gianluca Sabinot, titolari di uno dei ristoranti storici di Udine: il Vitello d’Oro. Lasciatevi andare alla Verticale di tonno rosso, servita in otto cucchiai che il cameriere in sala vi consiglierà di mangiare assaggiandone anche “uno ogni mezz’ora ma in un solo boccone”: olio e limone,avocado, olive taggiasche, capperi, aceto balsamico prodotto in famiglia, leggermente scottato, cren e wasabi sono le otto sublimi variazioni.
“Questo è uno dei piatti che non riesco a togliere mai dal menu insieme alla piovra e al risotto scampi & scampi” spiega lo chef Max che, oltre alla carta, propone due menu degustazione con il meglio delle proposte di cucina. Agli abbinamenti pensa Gianluca che, pur in un periodo di contrazione generale del consumo di vino, ha pensato ad una carta che racchiude 100 etichette del territorio, 64 tra nazionali e francesi, una selezione di alto livello di champagne e bollicine italiane.
“Negli ultimi due anni – racconta Gianluca – abbiamo riportato la carta alla realtà del mercato. Non hanno più senso le carte monumentali da 400 e più etichette. La nostra è una selezione che punta a valorizzare molto gli abbinamenti con le straordinarie materie prime che il territorio ci offre, compresi i vini stessi di questa regione”.
E via da lì basta salire a San Daniele per scoprire come Carlo Dall’Ava ha saputo creare un centro di assoluta eccellenza per il Prosciutto di San Daniele Dop, a cui ha affiancato una selezione rigorosa di prosciutti ottenuti da razze spagnole, ungheresi e siciliane dell’altopiano dei Nebrodi. Accanto all’azienda una prosciutteria, con annesso negozio di specialità alimentari, primo di una serie di prosciutterie a marchio Dok Dall’Ava che sono state aperte negli ultimi due anni con grande soddisfazione di consumatori golosi.
“Tutto nasce dal desiderio di riportare in tavola il mangiare di casa” afferma Carlo Dall’Ava, con una certa premonizione su dove si sta orientando oggi la ristorazione.
Poco distante c’è Friultrota, un allevamento non intensivo, dove il titolare Mauro Pighin riassume in poche parole la filosofia che sta alla base di una gamma di prodotti che sempre più spesso fanno la felicità della ristorazione, per le caratteristiche di alta qualità e servizio che offrono: “Una trota per essere buona deve essere una buona trota” afferma il titolare, confermando la semplicità come valore di questa terra di confine.


Pensieri e gesti semplici e puliti

È un refrain, quello della semplicità di pensiero che in realtà nasconde un profondo attaccamento all’idea del naturalmente buono, che ritroviamo nelle parole di Giovanni Collavini, produttore friulano tra i più famosi soprattutto all’estero: “Ogni nostro processo produttivo parte dal fatto che se l’uva è buona il vino è buono”. Con questo principio i Collavini, produttori dal 1896, hanno sviluppato un’azienda che oggi esporta in 35 paesi del mondo.
Una delle belle scoperte che si fanno in Friuli, grazie alla rete che il Consorzio di Walter Filiputti ha creato, sono le carte dei vini dei ristoranti che riservano il posto d’onore ai vini del territorio. Anche quando, come nel caso del ristorante Da Nando a Mortegliano, la cantina custodisce un patrimonio di 130.000 bottiglie di ogni parte del mondo.
Ma Ivan Uanetto al suo Friuli dedica un legame totale, a partire dai piatti che parlano solo di stagionalità e territorio, raccontati da lui e dal suo staff con un dettaglio che fa venir voglia di proseguire all’infinito il viaggio alla scoperta dei prodotti e delle persone.
“Se copiamo o rincorriamo le mode non riusciremo mai a distinguerci. Mentre se valorizziamo ciò che abbiamo intorno, se diamo un valore anche alla povertà in cui siamo cresciuti, fatta di cucina delle erbe o di storie come quelle della Latteria turnaria di questo paese che resiste dal 1915, ecco che conquistiamo quella unicità che ci consente di avere un posto privilegiato in questo mondo globale” sostiene Ivan Uanetto.
Per convincersene basta passeggiare attorno alla Locanda del Castello di Buttrio, dove nel parco, nelle camere, nei vigneti si respira un’inconsueta armonia fatta di colori leggeri, eleganza non ostentata, eccellenti vini. Tutto merito di Alessandra Felluga che, come dice Paola Antonaci, responsabile commerciale dell’azienda, “ha voluto creare un luogo dove il piacere della conversazione all’ombra dei gelsi fa perdere la dimensione del tempo”. Vero!
 
Luigi Franchi
pubblicato su Catering-Ristorazione e consumi fuori casa settembre-ottobre 2012

mercoledì 30 maggio 2012

Gualtiero Marchesi: il maestro è colui che insegna con l'esempio


Di Gualtiero Marchesi si è forse detto e scritto tutto ma con la tendenza a dire cosa ha fatto, ricordandone la fama internazionale e i celebratissimi piatti, oppure esprimendo pareri controversi su alcune scelte come, ad esempio, l’ultima che lo ha visto collaborare con la catena McDonald’s. Parlare con lui però è sempre un’altra cosa: “diversamente utile” per parafrasare uno dei suoi neologismi preferiti.
Difficile, ad esempio, che l’intervista proceda secondo binari classici, si chiede di cucina e ci si ritrova a disquisire su Massimo Mila, il musicologo autore della Storia della musica, oppure si parla di paesaggio ed ecco che esce l’aneddoto di un piatto ispirato da una montagna. Quella che segue è quindi un tentativo di mettere ordine in una lunga conversazione da cui esce il ritratto di un pimpante ottuagenario proiettato verso un futuro di ricerca e semplicità.
Si comincia… Cosa la spinse a viaggiare, scoprire, capire cosa succedeva negli anni ’50 nella cucina internazionale e italiana?
“Sono nato figlio di albergatori e ristoratori con una iniziale scarsa voglia di studiare, ancor meno di seguire la strada dei miei genitori. Fu mia madre che, con uno spettacolare colpo d’ala, mi spedì a 17 anni al Kulm Hotel di St. Moritz. Mi sono entusiasmato di quello stile e, in quel momento, mi sono reso conto dell’ambiente straordinario in cui ero nato. Fu così che decisi di iscrivermi alla scuola alberghiera a Lucerna. Alla scuola seguirono molti anni al Mercato, l’albergo dei miei genitori, dove passavano tutti, Fellini, Visconti, Testori che definì il nostro ristorante tra i migliori degli alberghi in Europa. Poi l’incontro con mia moglie che mi ha appassionato alla musica, con lei ho cominciato a studiare il piano. Sono state queste due donne che hanno influito sulla mia formazione e vita. Il passaggio successivo fu la Francia e l’incontro con Troisgros, da cui me ne andai solo dopo aver capito. Capito cosa? Mi disse. Vedrai, fu la mia risposta. Infine il Bonvesin della Riva e tutto il resto”.
Il resto è noto: primo tre stelle in Italia, piatti entrati nella storia, Albereta, il rifiuto di essere giudicato dalle guide, il ruolo di Rettore ad ALMA, la Scuola di Alta Cucina…
“Dove voglio essere sfruttato meglio. Vedi, ALMA ha fatto consulenza in molti paesi, con grande successo commerciale ma ora bisogna creare futuro. Ormai quella è la mia scuola, ma in tanti mi chiedono ma lei cosa c’entra qua? Non serve che io faccia una lezione ogni tanto o presenzi agli eventi. Mi piacerebbe invece ospitare lì la mia Fondazione che vuol fare formazione su arte, cucina e musica. Io sono in piena fase creativa, devo vedere delle cose, non puoi stare troppo lontano dal mondo: Marrakech, Shangai, Londra e New York saranno le mie prossime mete. Ed è proprio la mia curiosità che vorrei mettere a disposizione di ALMA”.
Albino Ivardi Ganapini, in altra parte della rivista, afferma che è grazie a lei che ALMA ha potuto diventare ciò che oggi è, perché lei ha chiesto di coinvolgere i migliori chef rappresentanti delle cucine dei territori italiani. Come si definisce una buona cucina?
“La cucina è prima di tutto una scienza, qualcuno ci ha definiti chimici dell’intuizione, sta lì la coniugazione perfetta tra scienza ed arte. Bach diceva ‘non è importante come tocchi il tasto, perché io ho già fatto tutto nella composizione’. E il piatto è la stessa cosa, prima c’è la composizione, la conoscenza della materia. ‘La musica non sono solo suoni, sono tempo e memoria’  scriveva Massimo Mila. Lo si può applicare anche alla cucina”.
Il parallelo con la musica è una costante del pensiero di Gualtiero Marchesi. Non potrebbe essere altrimenti, visto che moglie, figlie e nipoti vivono nella musica. Su questo costruisce esempi infiniti.
“Uno riguarda mio nipote Bartolomeo Dandolo Marchesi che a 14 anni mi disse: ‘nonno che bello ho suonato in orchestra’. Pensa a quanto allenamento, dedizione e passione ci sta dietro ad un’orchestra: è così, deve essere così anche in cucina: poi c’è il caso che diventi cuoco ma non è detto. Ora invece tutti si ritengono già dei compositori, ma i creativi in realtà sono solo i bambini. Se facessero un Masterchef per bambini allora sì, accetterei di fare la giuria”.
La scelta della materia prima: oggi va di moda andare alla ricerca del prodotto di nicchia. Quanto vale questo concetto per lei che ha lavorato spesso in controtendenza, anche per l’industria?
“Quando stavo a Milano tutte le mattine andavo al mercato, avevo fatto fare un punzone per segnare le lombate di 40/50 chili che selezionavo e poi facevo frollare 40/50 giorni. Ma la buona materia prima è anche altrove. Ti racconto una cosa: nell’ottobre 2002, quando l’Accademia Internazionale della Gastronomia mi assegna il Grand Prix “Mémoire et Gratitude”a Lione, al mattino esco e nell’edicola francese campeggia un giornale con la foto di Bernard Loiseau (lo chef più amato di Francia, insieme a Paul Bocuse ndr) con sotto il titolo ‘Il futuro della cucina è nell’industria’ ed è vero! In questo momento però il problema è un altro: abbiamo il guaio che il ristorante soffre del rapporto con il cliente perché manca l’oste, quello che sta attento ai bisogni del cliente”.
Come si risolve?
“Da me non succede perché abbiamo tolto il giochino. In sala si conclude la preparazione del piatto. Se ti faccio la salsa necessaria al piatto, che la metta il cuoco o il maitre di sala è lo stesso. In tal modo lo invogli a raccontare. Vengo dall’esperienza del grande albergo, dove c’era di tutto. Quando ero ragazzo c’era il maitre de plaisir, in grado di fare tutto, anche andare giocare a tennis con il cliente. La scuola di ALMA dovrebbe avere anche questo spirito”.
Cosa concorre a fare l’estetica nel piatto?
“ Prima mettiamoci d’accordo su cos’è l’estetica. Per me l’estetica comprende l’etica. Mia figlia dice ‘il bello puro è il vero buono’. A prescindere. Tempo fa, ad una cena, venne portato in tavola un risotto primavera, era talmente bello che affermai ‘potrei persino dirvi che è perfetto anche di sale talmente è bello’. La verità della forma è l’unica strada per eliminare l’inganno dell’apparenza, dice spesso mia figlia Paola e quelle parole mi sono tornate in mente sul lago d’Iseo, nei pressi di Lovere, dove c’è un piccolo spazio che guarda una montagna: ‘Così bello da sembrare finto… ed essere vero’ c’era scritto su un libro in pietra posato davanti al panorama, lo aveva scritto Raul Montanari. A quella montagna, così perfetta, mi sono ispirato per fare un piatto che ho in carta al Marchesino: la tartare, preparata in uno stampo a piramide che ho fatto fare appositamente, intorno la salsa. Così ho tirato fuori la materia”.
Come costruisce il menu?
“Quando faccio il menu degustazione lo penso con i tempi giusti: quanto deve frollare la carne, quanto tempo deve passare tra una portata e l’altra, vado a fare la spesa in funzione di questo. E mi ispiro spesso al kaiseki giapponese: laggiù lo fanno i grandi chef anziani ed è basato sulla presentazione per ammirare la maestria di chi prepara il piatto, perché sa sistemare e presentare i cibi con grande eleganza e sofisticatezza. Nulla viene messo a casaccio. La posizione di ogni singolo elemento viene attentamente studiata, in modo che il risultato finale sia un magnifico intreccio armonico di colori, forme e sapori. Questo mi ha portato ad ideare Marchesi Arte, un menu degustazione che è anche scuola di cucina fatta in sala. Poi ho il menu ‘meno cucina’, estratto dalla gran carta. Infine quattro  menu: intorno allo spaghetto, intorno al riso, tutta pasta e le paste farcite”.
Semplicità e leggerezza sono le sue parole preferite…
“Io sono italiano, uso la materia nostra, non sono di scuola francese, ciò che ho visto non è cucina francese, è internazionale. Ad esempio anni fa raccontai a Gianni Brera il mio risotto alla certosina, dove avevo scomposto tutto. Brera, dopo avermi ascoltato, mi disse: va bene ma vuoi mettere un bel riso in cagnon con due filetti di persico? Io avevo le mie ragioni e lui le sue: lui era l’uomo della  semplicità e io della leggerezza. Di recente ho fatto il menu Verso la purezza, un mio amico ha disegnato per il menu due righe che richiamano il calice, giocando sulla parola verso”.
Si parla anche di altro, anzi c’è in atto una certa fenomenologia di chef che diventano tutto ma soprattutto impera il linguaggio auto celebrativo. Cosa ne pensa?
“Vedi, io non sono neanche più in condizioni di dire niente, io sono moderno per quel tanto che mi concede la mia storia. Ma non mi voglio ridurre a non capire. L’altra sera sono andato alla Scala a vedere Mozart, mio nipote diceva ‘che pizza Mozart’. Preferisco sentire la musica senza l’opera, quando essa ti distrae. Ma quando il teatro è bello e la musica è buona, afferma mia moglie… Il linguaggio di adesso è un linguaggio presuntuoso, non ce l’ho con nessuno ma quando mi vedo servire un bollito sezionato su una tegola con i bicchierini con le salse, oppure mi si presenta un pisello che arriva da quella zona là e però viene servito disintegrato… Giorni fa ero a Verona e, passando davanti ad un ristorante (La Greppia di Giovanna Malini ndr) sono stato invitato ad entrare, lì ho assaggiato il bollito, ho assaggiato la tetta, mi ha fatto venir voglia di comprare un carrello. Prima impari a suonare… Ecco, i cuochi devono imparare a cucinare, a conoscere le tecniche di cottura, il rapporto intensità fuoco-spessore padella,  il punto di equilibrio da imparare e conoscere. E poi dobbiamo essere cinesi, togliere e non aggiungere. E la gente deve imparare a masticare, come dice Gandhi ‘il cibo deve scendere liquido”.
Critica o cronaca?
“La cronaca, ma come ci si permetti di dare dei giudizi. L’importante è che sia diversamente buono e diversamente bello. Bisogna smetterla di sputare sentenze”.
Il futuro come sarà?
“Il futuro sono io. Scherzi a parte, come finirà questa storia della cucina? Non lo so, c’è un ripristino per i prodotti della terra ma chi ci torna alla terra? Il mondo è diventato enorme, difficile pensare cosa avverrà? Io vado verso la materia e la purezza. L’importante è crearsi uno stile purché le cose siano buone. Vorrei che ALMA fosse una scuola di questo tipo, in grado di creare uno stile”.
Da maestro quali sono i suoi maestri?
“Il maestro è quello che insegna con l’esempio”.
Qual è il suo piatto della memoria?
“Devo andare molto indietro, quando ero bambino. Il paese di mio padre era San Zenone Po: mangiare il minestrone davanti alla porta di casa e il bottaggio, la cassoeula con il pollo. Poi il secchio del rame che tiravo su dal pozzo e bevevo l’acqua con il ramaiolo. Questi sono i tre piatti della memoria ed è la prima volta che parlo di queste cose, pensa cosa mi fai ricordare”.

Poi la conversazione continua ma è un’altra storia fatta di preziosi insegnamenti.

Luigi Franchi
Intervista pubblicata sulla rivista Catering-Ristorazione e consumi fuori casa
numero di maggio/giugno 2012





martedì 1 maggio 2012

S.Pellegrino Sapori Ticino incontra l’Italia


Grande cucina, grande serata, grande famiglia! Potrebbe bastare questo per descrivere la cena di S.Pellegrino Sapori Ticino che si è svolta lunedì 23 aprile all’Hotel Splendide Royal di Lugano.
Grande cucina che ha visto Marco Ghioldi, chef del ristorante dello Splendide Royal, accogliere Aurora Mazzucchelli, chef del Ristorante Marconi di Sasso Marconi (BO), in una performance di livello altissimo.
I piatti proposti da Aurora Mazzucchelli hanno convinto gli ospiti della geniale intuizione di Dany Stauffacher, ideatore ed organizzatore di S.Pellegrino Sapori Ticino, di dedicare una sezione della rassegna ai “Giovani Talenti d’Europa”. Una parte in cui la chef emiliana si è calata senza esitazioni riscuotendo un’elevata ammirazione: lo stupore con cui sono stati accolti i piatti ne rimane preziosa testimonianza.
Grande serata e non poteva essere altrimenti con un patron come Dany Stauffacher che ha raccolto intorno a sé amici del calibro di Giancarlo Morelli, dell’Osteria de Pomiroeu, e Pio Boffa, della storica azienda del Barolo Pio Cesare. Sono serate, quelle di S.Pellegrino Sapori Ticino, in cui si confondono raffinatezza, informalità, amicizia e valore al nuovo che avanza in cucina, ma un rinnovamento concreto, solido e non estemporaneo ed effimero.
Grande famiglia, infine: quella dei Mazzucchelli. Una famiglia con trent’anni di storia professionale alle spalle, con i genitori a fare da spalla dopo aver trasferito ad Aurora e Massimo passione e competenza. Non è così facile trovare in Italia esempi di condivisione imprenditoriale dove i genitori sanno quando arriva il momento di fare un passo di lato per dare valore e futuro ai figli: al Marconi è accaduto, qui restano saldi i legami che fanno la differenza.
Un ottimo inizio per questa edizione di S.Pellegrino Sapori Ticino che mantiene la promessa fatta da Dany Stauffacher: “Vi faremo innamorare del buongusto e della vita”.

Luigi Franchi





Il programma è consultabile sul sito www.sanpellegrinosaporiticino.ch

La galleria delle immagini della serata con Aurora Mazzucchelli si può vedere cliccando qui