giovedì 24 novembre 2011

Cronaca di un corso di cucina di casa


Dopo essere stati a Casa Artusi diventa più facile comprendere la frase con cui Pellegrino Artusi concludeva la sua prefazione al libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, ovvero il libro di cucina forse più tradotto al mondo, sicuramente quello con il maggior numero di riedizioni dal 1891 ad oggi.
Artusi chiudeva così: Amo il bello ed il buono ovunque si trovino. E, arrivando nella sua città natale, si capisce quanta influenza abbia esercitato su queste parole: oggi Forlimpopoli si presenta legata in maniera indissolubile al buon gusto. Basta fare un giro per le vie del centro per rendersene conto, a cominciare dall’arredo urbano, perfetto, pulito e ordinato perfino nei tendaggi dei negozi: tutti di un bel rosso granata con la scritta che dà il benvenuto al passeggio tra le vie del buon gusto.
Con questa immagine si varca la soglia di Casa Artusi, luogo di delizie architettoniche, estetiche, culturali e gastronomiche. Lo si può fare per svariati motivi: visitare la splendida biblioteca gastronomica, pranzare nel ristorante, assistere ad un dibattito o,e questo è il suggerimento più caloroso, partecipare ad uno dei numerosissimi corsi di cucina di casa che vengono organizzati.
La scelta è caduta su quello dedicato alla pasta: La sfoglia di una volta. Accolto dal ritratto dell’eleganza, la responsabile dei corsi, Carla Brigliadori, in una solare mattina d’inverno vengo subito messo a mio agio in mezzo agli altri 19 partecipanti (tre uomini e il resto donne) con cui assisto all’introduzione alla giornata: una purtroppo troppo breve lezione di storia e cultura della pasta a cura del professor Franco Mambelli, che offre utilissimi informazioni sulle regole del gioco che inizierà da lì a poco.
Entrano in scena le Mariette, ovvero le tutor a cui veniamo affidati: a me tocca Corrada Ricci, da condividere con Laura, una ragazza che da geometra ha deciso che diventerà una bravissima pasticcera. Dalla manualità che dimostra non ho dubbi che accadrà. Scopro che entrambe hanno fatto i corsi serali di Alberghiera: Corrada li ha intrapresi una volta raggiunta la soglia di giovane nonna; Laura sta finendo quest’anno, dopo essere stata, come molti, vittima della crisi che le ha fatto perdere il lavoro da geometra. Potenza della passione e della determinazione.
Si inizia! Ognuno alle sue postazioni della sala perfettamente attrezzata di Casa Artusi: uova, farina, asse da cucina, raschietto, matterello, tasca per il ripieno. Si comincia con il primo dei cinque impasti della giornata e ci si riconcilia con la chimica degli elementi. Sentire sotto le dita impiastricciate che, poco a poco, si forma una palla perfettamente elastica è una sensazione che non diventerà mai gesto ripetitivo. Questa è la prima cosa da tenere in mente!
Poi si passa al matterello. A Casa Artusi e in tutta la Romagna non esiste altra regola: il mio pensiero va alle due mitiche Imperia rosse che ho a casa. Ma ho deciso che non le abbandonerò, troppi ricordi affettivi mi legano ad esse. Si alterneranno con il matterello.
Sulla sfoglia tirata a matterello si scontrano intransigenze. Lo sento, ma Corrada è indulgente con le mie pieghe e mi insegna pazientemente come correggere i difetti, mentre il mio occhio cade sulla sfoglia perfetta di Laura.
Escono i primi tagli: io scelgo lasagne, garganelli e pappardelle. Altri si cimentano in tagliatelle, farfalle, tagliolini. In comune il fatto che non si butta via niente: i ritagli di pasta diventano maltagliati o stricchetti.
Al pomeriggio il clima ormai è conviviale, il pranzo al ristorante di Casa Artusi ha contribuito ad integrare le conoscenze, confrontare i gusti, raccontarsi aneddoti divertenti. Poi non ce n’è come essere ad un tavolo, unico uomo, con sette donne…
Si parte con le paste ripiene: ravioli e cappelletti all’uso di Romagna che garantiscono il piacevole indugiare alla chiacchiera.
Il piacere assoluto però è quando ci viene consegnata la pasta prodotta con le nostre mani. Credetemi, si ritorna bambini felici. Non si vede l’ora di farla assaggiare! Alla fine il diploma, l’attestato firmato di pugno dalla Marietta che ci ha seguiti: il mio porta la firma di Corrada Ricci, e in un angolo la scritta “bravissimo”.
Non mi faccio illusioni, i segreti imparati sono solo una piccola parte e tornerò ancora. Nel frattempo ho inoltrato la richiesta per essere accolto nell’associazione delle Mariette: l’unica che prevede quote azzurre, anziché rosa.
Tre giorni dopo ero in metropolitana a Milano: in tutta la tratta dodici persone su quattordici non hanno mai alzato lo sguardo dal cellulare. La voglia di spiegar loro che c’è un luogo in Italia dove si trova il bello e il buono era incontenibile.

Luigi Franchi
pubblicato su Cateringnews.it il 24 novembre 2011

mercoledì 16 novembre 2011

Serietà e innovazione, lo stile italiano che si riafferma

Tre stelle all’Osteria Francescana di Modena, meritate, meritatissime, che coronano lo straordinario anno di successo internazionale di Massimo Bottura. Ma anche una pioggia di nuovi riconoscimenti a due e una stella per la ristorazione italiana nello stesso giorno in cui anche l’immagine pubblica del Paese volta pagina con l’insediamento del governo Monti.
Come dire, serietà e innovazione che dimostrano ancora che questo Paese vale. Alle tre stelle assegnate a Massimo Bottura si affiancano i nuovi due stelle Michelin: Massimo Mantarro del Principe Cerami-Hotel San Domenico Palace di Taormina (ME), Andrea Migliaccio dell’Olivo-Hotel Capri Palace di Capri (NA), Antonio Mellino del Quattro Passi di Massalubrense (NA), Olivier Glowig dell’omonimo ristorante a Roma.
Gli altri locali che conquistano una stella sono 33.  Il totale dei ristoranti stellati in Italia sale a quota 295: 7 tre stelle, 38 due stelle, 250 una stella. Praticamente il 30% in più rispetto a sei anni fa: un dinamismo che dimostra quanto sia importante la capacità di scegliere, al posto dell’inseguire mode effimere e scimmiottamenti. I ristoratori e i cuochi italiani cominciamo a scoprire identità, radicamento con il territorio, ruolo sociale della loro attività.
Basta spulciare tra le curiosità della nuova edizione della guida Michelin per capire la trasformazione che è in atto: la Lombardia rimane la regione più stellata (56 esercizi), seguita dal Piemonte. Al terzo gradino del “podio”, a pari merito, si trovano Campania ed Emilia, quest’ultima con le tre stelle a Massimo Bottura e due nuovi locali a una stella: La Palta di Bilegno (PC) e I Portici di Bologna. La Toscana è la regione più dinamica, con 6 nuovi stellati e 6 nuovi Bib Gourmand. A livello delle province, le più stellate sono Cuneo e Bolzano (17 esercizi ciascuna), seguite dalla provincia di Napoli. Bolzano è anche la provincia con il numero più elevato di Bib Gourmand.
Ma ci sono anche 380 agriturismi e B&B che premono verso la qualità dell’accoglienza, 388 esercizi dotati di Spa e 937 di particolare suggestione; segni dei tempi che vedono il consumatore più rigoroso e selettivo, in cerca di luoghi ed esperienze di benessere tangibile, dove il prezzo è una componente nuovamente importante a cui viene attribuito un giusto valore, un atteggiamento trasversale a tutte le fasce e i ceti socioeconomici. Forse si può ipotizzare che è definitivamente tramontata la “Milano da bere” sostituita da una ricerca di autenticità.
Una piccola nota di soddisfazione: quattro locali dei 160 che abbiamo descritto nella guida ragionata Meglio Prenotare 2012 hanno conquistato per la prima volta la stella Michelin o sono diventati Bib gourmand: si tratta di Gignod a Le Clusaz (AO), Al Pont de ferr di Milano e, Bib gourmand, il Pretzhof di Vipiteno (BZ) e L’Anice stellato di Venezia. Luoghi dove identità e autenticità non sono solo belle parole.

Luigi Franchi
Pubblicato su Cateringnews.it il 16 novembre 2011
www.cateringnews.it

venerdì 4 novembre 2011

Il Coltellino d'oro e l'altra Italia



Ieri sera mentre guardavo Servizio Pubblico di Michele Santoro, e ancora in questi giorni mentre leggevo le cronache sui giornali o coglievo brandelli di conversazione tra le persone nei luoghi normali della vita quotidiana riflettevo su quella che impropriamente viene definita “l’altra Italia”. Uso il termine impropriamente perché l’errore più clamoroso che abbiamo commesso e stiamo commettendo è proprio questo: pensare alle persone che lavorano, alle persone perbene come “all’altra Italia”.
Poi mi imbatto in una notizia, che apparentemente non c’entra nulla con ciò che sta succedendo intorno a noi, nei mercati mondiali, nelle difficoltà drammatiche in cui si trova l’Italia che fino a pochi mesi fa venivano coperte e nascoste dall’incoscienza della classe politica che ci governa: la consegna del Coltellino d’oro a Francesco Guccini da parte del Consorzio del Parmigiano-Reggiano.
Il “Coltellino d’oro” è il massimo riconoscimento conferito annualmente dalla Sezione provinciale del Consorzio del Parmigiano-Reggiano a personalità modenesi che si siano distinte nella loro attività.
Uno dei tanti riconoscimenti che vengono dati, nelle varie parti d’Italia, a volte significativi, altre volte puramente promozionali.
Ma questo, in questo momento, assume ai miei occhi una dimensione diversa: viene assegnato (cito il comunicato) sabato 5 novembre a Modena al Forum Monzani, dove alle 19,00, si celebrerà la tradizionale “Festa dei Caseifici Modenesi”, giunta alla quarantesima edizione.
“Un appuntamento che, in occasione del 40° anniversario, abbiamo voluto rinnovare nella formula, da cena ad evento con varie iniziative e premiazioni – sottolinea il presidente della Sezione, Aldemiro Bertolini – come segno di stima e di ringraziamento per tutti quei maestri casari che sono autentici protagonisti del successo del nostro prodotto”.
“Un’occasione di festa – aggiunge Bertolini – nell’ambito della quale siamo davvero lieti di consegnare il “Coltellino d’oro” a Francesco Guccini, che con la sua musica ha contribuito a diffondere la cultura delle nostre terre, il nostro modo di vivere e, in qualche misura, anche l’immagine del Parmigiano-Reggiano, che di questa terra e dei valori e tradizioni che esprime è parte integrante”.
Ecco dove sta “l’altra Italia”! Ma questa è la parte vera del nostro Paese, non l’altra. Questa è la parte fatta di un tessuto imprenditoriale che sa mischiarsi con i luoghi, con le persone, con la storia e con il futuro.
La festa dei Caseifici Modenesi sarà una festa molto tradizionale, con il buffet, con lo spettacolo comico e con l’orchestra, con i giochi per i ragazzi. Ma anche con la presenza di quei giovani e di tutte quelle persone che stanno vicino ad un prodotto nobile ed antico come il Parmigiano-Reggiano attraverso i social network, la fanpage di Facebook che vanta 23.000 persone. Il futuro dunque.
Non è un operazione nostalgia del buon tempo andato. Questa è l’Italia, fatta di persone che lavorano e che celebrano il loro lavoro ritrovandosi insieme, in una festa che dura da quarant’anni. “L’altra” è solo un orribile incubo da cui, per fortuna, ci stiamo svegliando.

Luigi Franchi
pubblicato su Cateringnews.it, 4 novembre 2011

martedì 1 novembre 2011

Meglio Prenotare, storie italiane di ristoranti affermati





Le prime presentazioni della guida ragionata Meglio Prenotare, storie italiane di ristoranti affermati, edita da Edizioni Catering, hanno confermato la validità del progetto editoriale: raccontare, facendo parlare i protagonisti, le storie della ristorazione il cui successo è decretato dai clienti.
In occasione di Host, il salone dell’ospitalità professionale, il giornalista Maurizio Di Dio, curatore della rivista La Pentola d’Oro, ha presentato al pubblico professionale di Host, salone dell’ospitalità professionale a FieraMilano, gli autori della guida in due distinti talk-show: il primo ospitato da Tre Spade, azienda di riferimento per i prodotti casalinghi di qualità e per quelli dedicati a industria alimentare e, di recente, alla ristorazione; il secondo presso lo spazio La cucina del futuro, coordinato da Stefano Marinucci, presidente di FIC-Promotion.
Entrambi gli eventi hanno visto un pubblico composto da chef, ristoratori e giornalisti molto incuriosito dalla formula che sta alla base della guida: “Non abbiamo scritto una guida con l’intento di assegnare punteggi, ma di raccontare storie di ristoratori, cuochi, imprenditori e famiglie che hanno portato al successo il loro locale. Abbiamo voluto mettere in evidenza un aspetto a cui raramente si dà voce: quali sono i motivi e le scelte per cui un locale è apprezzato dalla clientela fino a creare fidelizzazione, passaparola positivo, la necessità di prenotare perché è spesso pieno. E lo abbiamo fatto selezionando 160 locali italiani, trasversali come tipologia che vanno dal ristorante stellato alla pizzeria, per offrire un ideale viaggio in Italia per i viaggiatori golosi e curiosi. Ma soprattutto per dare ad altri ristoratori la possibilità di conoscere i motivi di un successo, trarne eventuali spunti di riflessione per il loro locale” ha spiegato Roberto Martinelli, direttore di Edizioni Catering e della rivista Catering, autore della approfondita introduzione alla guida.
Meglio Prenotare, alla sua prima edizione, raccoglie dunque 160 storie di ristorazione italiana, selezionate grazie ad un pool di suggeritori esperti di ristorazione distribuiti in tutte le regioni italiane. Il criterio di indicazione era appunto quello di indicare locali premiati dalla clientela per i motivi più diversi: dalla cucina al rapporto qualità-prezzo, dal servizio alla selezione delle materie prime di qualità, dalla storia del locale all’innovazione.
Intorno a queste segnalazioni hanno poi lavorato i cinque autori della guida: Alfredo Antonaros, Luigi Franchi, Alessandra Locatelli, Antonio Longo, Roberto Martinelli.
“Non è certo una base statistica quella che abbiamo voluto rappresentare, il numero è sicuramente esiguo rispetto alle migliaia di luoghi di consumo fuori casa che ci sono in Italia. Ma abbiamo volutamente scelto, coprendo comunque tutte le province italiane, locali che corrispondono ai desideri di chi li frequenta e tale frequentazione testimonia palesemente la capacità del ristoratore di assecondare buona parte delle aspettative della clientela. Non diciamo tutte ma con molta probabilità un buon numero: altrimenti il locale non sarebbe gradito e quindi nemmeno affollato. Gli elementi che confermano la fortuna di queste attività emergono casualmente e sono state trascritte senza alcuna priorità. Sono state evidenziate come così ci sono apparse dai racconti dei protagonisti. È molto probabile che il lettore possa avvertire nelle sue riflessioni altri elementi oltre quelli evidenziati da noi. Se ciò fosse sarebbe una ulteriore conferma della scelta di quel locale” ha ribadito Roberto Martinelli nel corso delle presentazioni.
La guida è in vendita, al costo di 13 euro, online sui principali bookshop o richiedendola al sito
www.cateringnews.it
http://www.amazon.it/Meglio-prenotare-italiane-ristoranti-affermati/dp/8897671004

Tra architetture agricole e sapori isolani



Panficato dell’Isola del Giglio, bottarga di tonno di Carloforte dell’Isola di San Pietro, la schiaccia e i mieli dell’Isola d’Elba, la masculina ‘emagghia della piccola Isola di Ortigia di Siracusa, i fagioli zampognari dell’Isola d’Ischia: sono solo alcuni dei prodotti delle isole del Mediterraneo che Claudio Bossini si è fatto mandare o portare dai produttori per allestire uno spazio della sua Osteria La Paloma, a Giglio Porto, dove si possono acquistare vini, oli, paste, salse delle varie isole italiane, tra cui quella palamita che lui ha contribuito in prima persona a riaffermare come presidio Slow Food.
In occasione delle Giornate Europee del Patrimonio culturale, a fine settembre, Claudio Bossini decide di estendere quell’angolo di osteria ad un prodotto che accomuna tutte queste isole: il vino passito. Trova la disponibilità dell’amministrazione comunale dell’isola, quella dei produttori del Giglio, e avvia le ricerche e i contatti.
Attorno al progetto si dà vita ad un convegno inusuale dove sono infatti i produttori arrivati con i loro vini dalle varie isole a parlare, raccontare le loro esperienze, le fatiche che comporta produrre su un’isola, ma anche i piaceri, la qualità della vita, la difesa della terra: Gaetano Conte, tecnico dell’Arcipelago Muratori e dell’azienda Giardini Arimei dell’Isola d’Ischia, Ugo Lucchini dell’azienda Acquabona dell’Isola d’Elba, Umberto Zamaroni dell’azienda U Tabarka dell’Isola di San Pietro, sono tra quelli che raccontano perché hanno scelto di andare a fare i vignaiuoli su un’isola, partendo dalla terraferma.
“Al Giglio ci si viene non solo per il mare, ma anche per recuperare e vivere la tradizione dell’isola. E il vino e i suoi aspetti sociali ne sono uno straordinario esempio che costituisce la base del progetto in cui crediamo”, parole che Sergio Ortelli, sindaco del Giglio, pronuncia con profonda convinzione prima davanti agli ospiti del convegno, poi in maniera informale ma ancor più sincera in una delle cantine seicentesche di Giglio Castello, mentre si assaggiano i piatti e i vini delle isole, in un clima di grande fratellanza.
“Un tempo, fino a quarant’anni fa, le viti ricoprivano i due terzi dell’isola e la vendemmia si faceva con le barche” dice Giovanni Rossi, produttore gigliese della Fontuccia, mentre scendiamo a piedi verso la sua vigna di un ettaro strappato alle rocce di granito che formano l’isola. “Io e mio fratello abbiamo cominciato a reimpiantare il vigneto una decina di anni fa e adesso produciamo circa 2500 bottiglie di Ansonica e 500 di passito.” Da questi numeri è chiaro che non ha fatto questa scelta perché poteva diventare un business. E basta guardare come si muove tra i bassi filari, coglierne lo sguardo mentre racconta dei giorni in vigna per capire che non cambierebbe questa vita con nessun’altra.
I suoi vigneti e quelli dei pochissimi altri produttori dell’isola sono capolavori di architettura agricola la cui bellezza è tanto più apprezzata se si pensa alla fatica con cui sono stati creati. Bisogna camminarci in mezzo per capirlo; al contempo si capisce anche tutto l’amore che ci mettono, tutta la bellezza che si vive.
Un capannello, così si chiamano qui i palmenti, davanti al mare serve per ricoverare gli attrezzi, ma anche per riposare dalle fatiche e lasciar riposare gli occhi e la mente, senza squilli i cellulari che qui, al pari della totale assenza di luce elettrica non prendono.
“Niente veleni, niente diserbanti, niente di niente. Solo grande passione” si spiega così il motivo per cui Francesco Garfagna ha trasformato le sue vacanze al Giglio in stanzialità, recuperando una vigna e ridando vita all’Ansonica, il vitigno dell’isola citato dal Bacci nel Cinquecento il cui nome pare derivi dal francese sorie, fulvo, color oro. Il suo esempio, e forse di più la sua cocciutaggine, hanno vinto: il vino al Giglio è ritornato, naturale come deve essere.
La sua è la vigna più grande dell’isola, circa sei ettari, ma lui non produce passito perché “non lo sento mio” racconta “ma resta un vino importante, fondamentale per recuperare identità.”
“Qui un tempo si faceva il vino scelto, era la prelibatezza natalizia” svela Biagio, uno storico produttore che ora fa il vino per sé, “si prendevano i grappoli di diverse uve, si lasciavano ad appassire sulla roccia e poi si preparava il passito.”
Il vino ridisegna le antiche strade del mare, non ricordo chi ha detto questa frase tra le decine di storie ascoltate nei giorni dell’incontro tra i produttori delle isole; ma è la sintesi del progetto.
Perché è vero, il vino, insieme all’olio e agli altri prodotti alimentari, hanno generato per millenni rotte commerciali e mescolanza di razze. Hanno creato democrazia.
Quella stessa che Claudio Bossini, a suo modo, replica ogni giorno nella sua osteria, riconoscibile appena si sbarca a Giglio Porto, per l’azzurro della facciata e il cartello ‘cucina spontanea’: “Si decide giorno per giorno cosa mettere in carta, in base al pescato. Ho voluto, non a caso, valorizzare il termine ‘cucina spontanea’ che è stato coniato dai clienti. Ad esempio io cucino solo per la sera, perché al mattino arriva il pesce fresco e, sulla base di ciò che dà il mare o la terra dell’isola con i suoi frutti, mi devo organizzare. – racconta il cuoco - A volte questa scelta di proporre il quotidiano non è capita, ma quando l’ospite mangia il piatto con un’attenzione diversa, diventa il piacere vero per cui continuo a fare questo lavoro.”
Sono persone straordinarie quelle che ho conosciuto attorno ai tavoli della Paloma e nelle vigne di fronte al mare: persone che impiegano mille ore a ettaro di lavoro contro le abituali duecento di un vigneto di pianura, ma non per questo rinunciano a difendere la loro terra, la loro identità, il loro amore per l’isola. Un modo diverso di vivere, dove i ritmi li decide ancora una volta la natura.

Luigi Franchi

Pubblicato su www.cateringnews.it – Settembre 2011

Leonardo Frescobaldi: un grande vino è immune alle mode e al trascorrere del tempo

Leonardo Frescobaldi ha viaggiato a lungo in molte parti del mondo, forse seguendo le orme del suo omonimo del XIV secolo che compì un viaggio in Terrasanta pubblicandone un dettagliato resoconto. Di certo questa passione di viaggiatore gli consente di governare, con grande capacità di visione internazionale, l’azienda dell’Italia enologica più conosciuta nel mondo, sia per qualità che per storia.
Settecento anni e trenta generazioni di impegno nella produzione di vino rappresentano, per Marchesi de’ Frescobaldi, un piacere e un obbligo: quello di tenere altissima l’immagine del vino italiano nel mondo. A cui assolvono puntualmente nelle loro nove tenute in Toscana e negli 80 paesi del mondo in cui sono distribuiti i loro vini.
A Leonardo Frescobaldi, presidente del gruppo, chiediamo come è  cambiata negli anni la sua visione imprenditoriale e umana?
“Il mondo del vino, negli ultimi anni, è molto cambiato sia in Italia che all’estero, e questo ha significato – per un’azienda storica come la nostra – doversi misurare con una realtà sempre più internazionale. Oggi do una grande importanza alla crescita dell’azienda, sia nel mercato nazionale che all’estero, facendo in modo di avere un’immagine sempre coerente con quella che ci caratterizza da sempre, di sviluppare business in modo uniforme e capillare e soprattutto facendo molta attenzione alla scelta corretta della distribuzione dei nostri vini, che storicamente concentrano la massima attenzione sul canale tradizionale. Pertanto ritengo indispensabile il fatto che, anche nei Paesi dove non operiamo con la nostra rete commerciale, i nostri interlocutori garantiscano un profilo specializzato verso prodotti di alta gamma. Marchesi Frescobaldi rappresenta 700 anni di storia del vino italiano nel mondo. Un primato che consente di superare tutti i fenomeni di moda o estemporaneità che, soprattutto negli ultimi tempi, il vino ha vissuto”.
Lei probabilmente può indicare la definizione ideale per il vino. Vogliamo provarci?
“La moda passa ma ci sono dei valori che non vengono corrosi dall’età. Un grande vino è appunto un vino con suo stile personale, unico, immune alle mode e al trascorrere del tempo. Quello che cerchiamo di trasmettere attraverso i nostri vini è lo stile Frescobaldi, caratterizzato in primis dal rispetto per la tipicità del territorio al quale le nostre tenute sono molto legate”.
A proposito di tendenze, oggi il vino italiano si salva grazie all’export. Ma, come spesso accade, si generano fenomeni incontrollati e controproducenti, come quello per cui tutti guardano all’export come obiettivo. Ma per esportare significa conoscere mercati e regole ben definite. Come giudica la situazione?
“Anche per Frescobaldi il mercato dell’esportazione ha sempre avuto un’importanza fondamentale. Circa due terzi della nostra produzione è indirizzata in oltre 80 paesi esteri: per questo, al fine di mantenere il prestigio della nostra marca e offrire il prodotto più adatto ai consumatori, ritengo sia essenziale una conoscenza approfondita dei singoli mercati, raggiunta negli anni attraverso una presenza e presidio aziendale costante e frequente. Per Frescobaldi la presenza sui mercati trasmette prestigio e internazionalità al marchio, indispensabile per un’azienda come la nostra, che vuole essere conosciuta sia nei Paesi emergenti che in quelli dove il vino di qualità si consuma con frequenza”.
E come vede il futuro del vino italiano?
“Credo che il vino italiano abbia la grande opportunità di rafforzare la propria immagine di prestigio nel mercato globale. Secondo me, dovrebbe seguire l’esempio della moda italiana, che si è imposta grazie all’unicità del proprio stile. La ricetta che il vino italiano dovrebbe seguire? Essere espressione del territorio da cui proviene, puntare sul legame storico con il cibo italiano di qualità e osare, nel contempo, l’accostamento ad alcune pietanze internazionali”.
Molte volte si è dibattuto sui canali di mercato, grande distribuzione o ristorazione, esaltando o demonizzando l’uno o l’altro, a seconda delle tipologie di vino e delle aziende. Come deve essere un corretto approccio al mercato? E verso il consumatore?
“Per Frescobaldi  la distribuzione nel canale tradizionale è fondamentale in quanto è il veicolo per raggiungere il consumatore ‘appassionato’. Non trascuriamo la realtà della GDO che diventa sempre più attenta nell’offrire una gamma di prodotti di alto livello. Secondo me, la forza di un prodotto dipende dalla richiesta dei consumatori: tanto più un marchio è forte, tanto più si può permettere di essere presente in entrambi i canali. A questo proposito citerei l’esempio del nostro Nipozzano Riserva”.
Quali consigli darebbe ad un ristoratore per creare la propria carta dei vini?
“Avere nella carta dei vini prodotti affermati sia in Italia che all’estero:  nomi familiari al consumatore, facilmente riconoscibili e reperibili sul mercato. Importante anche menzionare sempre il produttore e non solo la tipologia del vino, oltre ad offrire un ampio ventaglio di prezzi, in grado di assecondare le esigenze di clienti diversi”.
Di recente avete approcciato a forme innovative di advertising che, per un’azienda storica e per un’azienda del vino, sono ancora inusuali. Cosa ha determinato questa scelta?
“Abbiamo fatto questa scelta al fine di  comunicare con il consumatore e trasmettergli il valore dei nostri vini e della Frescobaldi: tradizione, innovazione e legame con il territorio toscano. L’idea dello “story telling” invece è stata vincente perché vogliamo che il consumatore che sceglie il nostro vino compri anche un pezzo di Toscana e soprattutto un’emozione”.
Quanto valore affidate a forme di promozione come l’enoturismo?
“È molto importante avvicinare il consumatore al territorio e fargli capire quanto questo trasmetta il gusto e la passione per il vino: proprio per questo apriamo le porte delle nostre cantine con visite guidate e degustazione presso le  tenute storiche di Pomino, Nipozzano, Castelgiocondo e Castiglioni”.
Qual è il suo piatto della memoria?
“Un fantastico stracotto alla fiorentina gustato per la prima volta all’età di 11 anni e cucinato dalla fattoressa di Nipozzano: fu allora che per la prima volta mi fu concesso di assaggiare un bicchiere di vino rosso. Ed è stato da subito amore”.
E il vino della memoria?
“Indubbiamente il Mormoreto, vino con il quale abbiamo realizzato il progetto del nostro antenato Vittorio che già nel 1850 aveva posto le basi con l’introduzione di vitigni quali il Cabernet Sauvignon e il Merlot e il Cabernet Franco nell’omonimo vigneto sulle colline a est di Firenze”.

Luigi Franchi
Pubblicato su Catering, rivista della ristorazione  e dei consumi fuori casa – Settembre 2011


Carlo Petrini: la memoria ci insegna la via per il futuro

Non servono presentazioni e la gioia di poter conversare con Carlo Petrini, fondatore di Slow Food e tra le “50 persone che potrebbero salvare il mondo”, secondo il Time Magazine, è talmente grande che va condivisa con tutti i nostri lettori.
Come si cambia?
“Credo che oggi si cambi attraverso lente ma profonde trasformazioni che si percepiscono nella loro  grandezza soltanto dopo un po’ di tempo che sono cominciate. Mi piace sempre citare una frase di Edgar Morin che dice “Tutto deve ricominciare e tutto è già ricominciato”. Mi sembra paradigmatica dei nostri tempi, in cui sempre più spesso processi democratici dal basso cambiano le cose in silenzio, ma con grande determinazione. Anche nel mondo del cibo sta avvenendo questo: tutto deve ricominciare perché il sistema attuale è fortemente insostenibile sotto più punti di vista, ma tutto è già ricominciato perché se guardo a Terra Madre, ai farmers’ markets, agli orti urbani in tutto il mondo, alle nuove sensibilità dei giovani verso le tematiche del cibo e dell’ambiente, non posso che constatare che siamo entrati in una nuova fase, dove si stanno piano piano imponendo nuovi paradigmi, sempre più necessari”.
Tre anni fa, inaugurando Terra Madre, lei profetizzò che la crisi avrebbe dato nuovo valore alla terra, al lavoro manuale, al rispetto per l’economia rurale. Questi dati sono puntualmente confermati. Da adesso in poi cosa è necessario fare?
“È necessario insistere e continuare su questa strada. Tre anni fa questi valori erano meno rispettati e considerati di oggi, così come lo erano ancora meno dieci anni fa. Rimane molto da fare perché il mondo economico e politico è ancora piegato su paradigmi vecchi e inadeguati alle nuove esigenze del mondo e dell’umanità. Si tende a considerare questi elementi come marginali, così come marginale viene considerata l’umanità che se ne fa portatrice. Ma stiamo parlando ancora di circa la metà della popolazione mondiale, mentre nelle città di tutto il mondo crescono queste sensibilità e si stringono nuove alleanze con il mondo contadino. Queste opzioni sono di grande modernità, o se vogliamo di post-modernità, perché scardinano un modo di pensare che ci ha indotti a depredare la Terra senza ritegno, rischiando il collasso. Io ho fiducia, perché vedo queste persone che lavorano nei campi in maniera pulita e rispettosa della natura, vedo i cittadini che ricercano i loro prodotti attraverso forme di distribuzione alternativa e capisco che un reale cambiamento si può realizzare, e che oltretutto non comporta grandi sacrifici, anzi, è piuttosto piacevole”.
Le bolle speculative stanno generando fortissimi aumenti delle matierie prime, aumentando le disparità tra paesi ricchi e paesi poveri, con uno spreco inaudito del cibo nei paesi industrializzati. Cosa serve per contrastare questa tendenza?
“L’unica soluzione è una presa di coscienza dei singoli, che induca a cambiare radicalmente il proprio modo di comportarsi. Anche questo è un processo già partito, ma che ora dovrà diventare di massa.  Le speculazioni finanziarie sono figlie di un modo di fare economia vecchio e destinato a finire, prima o poi; lo spreco è una cosa su cui, con un po’ di attenzione, possiamo incidere tutti. Prima non se ne parlava neanche, oggi ne siamo un po’ più consapevoli e mettendo in atto piccole rivoluzioni quotidiane, nelle nostre famiglie, potremmo fare molto”.
La memoria è un tema a lei caro. Riesce ad affrontarlo senza scadere nella nostalgia. Come ci riesce, quale valore attribuisce ad essa, e come si può trasferirla?
“È sufficiente constatare come la memoria ci insegna la via per il futuro,  perché a questo serve, non a fare i nostalgici. Prendiamo lo spreco: se si ha memoria si impara che i nostri vecchi neanche se lo sognavano di sprecare il cibo: anzi, si sono inventati dei modi eccezionali per recuperare tutto. Lo dimostra il fatto che molte delle nostre migliori ricette tradizionali proprio per questo scopo sono nate. Pensi alla ribollita, all’uso del pane vecchio, ai ripieni delle paste ripiene, alle virtù teramane, a mille altre ricette che utilizzano l’usato e l’avanzato. Non solo sono un modo intelligente di non buttare via la roba, sono anche buonissime e i cardini della nostra identità gastronomica! Non pensarci è da stolti, non praticarle è da autolesionisti. La cultura contadina, che è stata buttata via come il bambino con l’acqua sporca per cancellare secoli di stenti, in realtà ha ancora un valore straordinario se riportata ai nostri tempi. Il ritorno a questi valori potrebbe essere molto più semplice di quanto non sembri, ma senza memoria si fa fatica”.
Terra madre e le comunità del cibo. L’appuntamento di Torino è la dimostrazione che comunicare si può, anche oltre la difficoltà linguistica. Qual è lo stato dell’arte? Come sta crescendo questa nuova rivoluzione?
Alla parola rivoluzione preferisco trasformazione, e ho già spiegato perché. Terra Madre cresce piano, lentamente, slow. Ma monta come un fiume in piena, perché ha forma di rete e le reti non si possono controllare, possono solo crescere secondo i valori di cui sono portatrici. Al di là dei meeting torinesi, oggi siamo a più di 2.000 comunità in 153 Paesi del mondo che costituiscono una rete attiva e permanente, che lavora ogni giorno. Terra Madre rappresenta circa un milione di persone; un’umanità straordinaria, senza divisioni, che lavora nella stessa direzione. Io credo che possano arrivare a influenzare la politica, le decisioni cruciali che si stanno prendendo nel mondo. Faccio l’esempio del Farm Bill, la legge agricola che si sta discutendo negli U.S.A e che entrerà in vigore nel 2012, o della P.A.C., la politica agricola comune Europea che partirà dal 2013: Terra Madre sta già lavorando per far sentire la sua voce, siamo ascoltati dai commissari incaricati di ridisegnare queste carte fondamentali per il futuro del cibo. È un grande risultato, uno dei tanti, come quello di aver ridato dignità a queste persone, e fatto sentire la loro voce”.
Si avvicina rapidamente Expo 2015 e la sensazione diffusa è che si sta perdendo di vista il tema rispetto al fenomeno dei grandi numeri, di aree e di visitatori. Cosa intende fare Slow Food per ‘Nutrire il pianeta, energie per la vita’?
“Che a partire dal cibo si può ridisegnare il nostro rapporto con il Pianeta, in maniera sostenibile. È il cardine attorno al quale ruota tutto: le nostre attività, la nostra cultura, la nostra identità umana, il nostro futuro. Se non si parte da lì si perde di vista il punto d’arrivo e si sbaglia. Si abbracciano modi di vedere la vita e il mondo che sviliscono sia la vita sia il mondo”.
Spesso lei e il suo movimento avete dovuto fare i conti con un’errata interpretazione, fatta dai media e dai politici, del diritto al piacere. Vogliamo ribadirne il significato?
“Il piacere è prima di tutto un diritto, perché è fisiologico e chiunque può provarlo. Purtroppo viene identificato con il lusso e con la ricchezza, ma non è così anzi, lusso e ricchezza possono svuotare facilmente il senso del piacere e portare alla noia esistenziale. Il piacere è un motore delle nostre vite, che va ricercato soprattutto nelle piccole cose e rispettato, garantito a tutti perché è una cosa umana, naturale. Per piacere s’intende il fatto di vivere bene con soddisfazione e in armonia con ciò che ci circonda. Con moderazione e buon senso. Un’honesta voluptate. E visto che tutto parte dal cibo, il piacere del cibo è una delle prime cose che dobbiamo imparare a praticare, lontano da lussi e status symbol, come forma di godimento della vita, semplice e profondo, insieme a tutti i valori di cui il cibo è portatore”.
Qual è il suo piatto della memoria?
“Per non fare il nostalgico, rispondo che è la curiosità. I piatti che mi ricordano i luoghi in cui sono stato, in cui ho ritrovato i modi di vivere di intere civiltà, storie fantastiche, territori meravigliosi”.
E la materia prima o l’ingrediente che ama di più?
“Quella buona, pulita e giusta”.

Luigi Franchi
Pubblicato su Catering, rivista della ristorazione  e dei consumi fuori casa – Luglio 2011


La nuova guida di Identità golose, tra le energie per il futuro e il grande palcoscenico della cucina italiana


“I soldi servono per poter continuare a fare bene questo lavoro che impone ricerca, sperimentazione, possibilità di scoprire, conoscere e confrontarsi con altri chef”. La frase è estrapolata dal breve emozionatissimo discorso di ringraziamento per il premio Sorpresa dell’Anno, assegnato dalla guida di Identità Golose di Palo Marchi, che ha fatto ieri Lorenzo Cogo, del ristorante El Coq di Marano Vicentino. Ed è stato il più sincero discorso che ho sentito in questi ultimi mesi, che ha messo il dito nella piaga di questo mestiere, ne ha portato a galla tutte le difficoltà e i bisogni di capire per crescere.
Complimenti quindi a Paolo Marchi e a tutto il suo staff di 103 autori per aver scelto Lorenzo e per aver scelto!
Il loro è un modo chiaro e diverso di fare critica gastronomica, credendo e difendendo le conseguenti scelte che ne derivano. Ma altrettanto sostegno a chi, come Lorenzo Cogo, o Aurora Mazzucchelli del ristorante Aurora di Sasso Marconi (migliore chef donna), o ancora Giovanni Passerini del bistrot Rino a Parigi (miglior chef straniero),  e Francesco Assenza del Caffè Sicilia di Noto (miglior artigiano), ogni giorno fanno i conti con qualcosa che la fama e la notorietà non gli hanno ancora dato: il dover contare esclusivamente sul proprio lavoro. Cito questi quattro perché accomunati dalle medesime emozioni che, nel corso della presentazione, trasparivano in maniera evidente. Ma le loro storie sono semplicemente quelle che ieri venivano alla luce in un contesto pubblico. Insieme a quelle degli altri premiati: Paolo Lopriore del ristorante Il Canto di Siena (miglior chef), Federico Zanasi e Luca Abbadir del Clandestino di Portonovo e della Madonnina del Pescatore di Senigallia (migliori sous-chef), Nino di Costanzo del ristorante Il Mosaico del Terme Manzi Hotel (premio Birra in cucina), Chiara Patracchini del ristorante La Credenza di San Maurizio Canavese (miglior chef pasticciere), Cristiana Romito del ristorante Reale di Castel di Sangro (miglior maître), Marco Reitano del ristorante La Pergola dell’Hotel Rome Cavalieri di Roma (miglior sommelier), Marco, Paolo e Vittorio Colleoni del ristorante San Martino di Treviglio (premio Giovane famiglia) ed Errica Tamani della Gazzetta di Parma (miglior giornalista).
Leggendo la guida è evidente il senso che la distingue: oltre ai già noti che qui vengono raccontati in maniera più originale, emerge il significativo lavoro di scouting fatto dai 103, coordinati da Gabriele Zanatta, accolto in sala da una vera e propria standing ovation, che raccontano di 646 ristoranti nel mondo, di cui 474 italiani.
E se non bastasse, viene in soccorso della filosofia della guida la frase di Antonio Albanese, che ha scritto per la guida un piccolo illuminante saggio dal titolo ‘ Il grande palcoscenico della cucina’: “Tutti possono diventare dei grandi ristoratori tranne alcuni ristoratori”.
Ma torniamo alle parole di Lorenzo Cogo, giovane chef ventiquattrenne che vanta un curriculum di globetrotter nelle cucine di mezzo mondo, al punto che ti chiedi a che età ha cominciato, prima di tornare a casa a Marano, grosso borgo della pianura vicentina tutto casa e lavoro e casa.
“Ho ricevuto proposte da ognuno dei luoghi in cui ho lavorato. Ho sentito l’invidia e l’ammirazione dell’essere italiano e mi sono detto. Possibile che un giovane non possa farcela? E sono tornato”. Questo è il percorso che ha fatto Lorenzo che adesso lotta ogni giorno con la difficoltà a far capire cosa significa innovare la tradizione, imparando e necessariamente anteponendo quello che molti ristoratori, anche di lunga data, spesso non fanno: essere imprenditore.
Questo voleva dire Lorenzo con quella frase: non avidità, nessun facile guadagno, ma sapere e poter fare una cucina con quello che sa e quello che ha, parafrasando Ducasse.
Si vada dunque oltre, mi permetto di scriverlo con moltissima umiltà, al sostegno pur importante di un riconoscimento da parte di aziende, in questo e in molti altri eventi che si susseguono nella ristorazione italiana, per arrivare a sostenere quel bisogno di ricerca, di sperimentazione, di volontà di dimostrare che si può, che un giovane può fare questo mestiere, con professionalità e imprenditorialità. Si aiutino le energie per il futuro, una gran bella espressione coniata da Paolo Marchi per introdurre la sua guida.
Lo facciano anche le istituzioni, evitando di sbandierare il Festival della ristorazione italiana se poi non lo si fa, mentre la Francia non lo annuncia e lo fa, coinvolgendo migliaia di persone attorno alla bellezza e alla socialità della buona cucina.
E venga raccolto l’appello di Moreno Cedroni, lanciato ieri durante la presentazione di Identità Golose di New York: “Basta tovaglie a quadretti nell’immaginario collettivo della cucina italiana nel mondo”.
La ristorazione italiana è anche buon gusto, cura dei dettagli, ospitalità che non teme confronti.

Luigi Franchi

Pubblicato su www.cateringnews.it – Settembre 2011