mercoledì 14 dicembre 2011

Gestire una carta dei vini secondo Nicola Bonera





Ma esiste un modello ideale di carta dei vini? Ce lo siamo chiesti entrando in una delle più originali e innovative cantine di ristorante italiano: quella delle Due Colombe di Stefano Cerveni a Borgonato, www.duecolombe.com, nel cuore della Franciacorta. La risposta ci viene dal sommelier del ristorante, Nicola Bonera, navigato wine-consultant e primo classificato al Premio Franciacorta per il Miglior sommelier d’Italia 2010, con cui ci inoltriamo in un discorso intessuto di preziosi consigli.
“Un vero e proprio modello non esiste, ogni carta dei vini riflette le esperienze, le passioni, la cultura di chi l’ha realizzata. Esiste però il numero attraverso il quale la carta può definirsi completa: indicativamente di poco superiore alle 200 referenze”.

Con quale criterio avete costruito la cantina e la carta?
“A 14 mesi dalla riapertura dopo il cambio di sede, la carta rispecchia quasi completamente la nostra filosofia e soprattutto i nostri gusti, ovvero la proposta si sta sempre più spostando verso bollicine (Franciacorta in primis) e vini bianchi di eleganza e di struttura non troppo impegnativa, con ancora una buona scorta di vini rossi, soprattutto italiani, eleganti e fini. Tra i vini bianchi hanno grande spazio quelli dell’Alto Adige, della Wachau in Austria e i Riesling della Mosella in Germania, le mie vere passioni che, ho scoperto strada facendo, sono le passioni anche dello chef e apprezzate da un gran numero di clienti. Il locale è in un contesto storico, le fondamenta della prima costruzione sono datate 900 d.C., per cui mura antiche, pietra, legno e pavimenti antichi; mancava però un locale interrato e sufficientemente vicino alla sala da adibire a cantina, è stata perciò sacrificata una sala del ristorante per ricreare l’ambiente adatto, tramite climatizzazione ed umidificatore possiamo conservare in un ambiente a 15° C e con il 70% di umidità i nostri gioielli.  Per colpire ancor di più, e per permettere ai clienti di visitarla è stata creata una cantina super moderna e tecnologica, con strutture di sostegno in plexiglass e luci fredde a led, di vari colori”.

Il cliente, nel vostro caso specifico, quanto si affida e quanto sceglie personalmente?
“Spesso molti tavoli, all’incirca due su tre, si affidano ai nostri percorsi di abbinamento al bicchiere mentre altri, pur volendo scegliere una bottiglia per tutto il pasto, si lasciano comunque consigliare. In altri casi chi sceglie personalmente il vino lo fa perché è appassionato di certe tipologie o territori, c’è però un nutrito gruppo di clienti che sceglie proprio pensando a ciò che mangerà, e una volta fatta la scelta chiedono comunque conferma al sommelier se quanto ipotizzato possa andar bene”.

Quanto vino riuscite a far girare e come ci riuscite?
“In un anno si vendono circa 3000 bottiglie di vino, solamente per quanto riguarda il ristorante à la carte (poiché parallelamente c’è una struttura indipendente creata per cerimonie ed eventi); tale numero corrisponde all’incirca allo stoccaggio massimo di cantina, per cui si può affermare che vendiamo quanto possiamo permetterci di acquistare. Attualmente in carta ci sono 600 referenze, 600 diversi vini e, a parte alcune bottiglie quasi “intoccabili”, generalmente per prezzi poco accessibili, ne abbiamo già venduti, in un anno, oltre il 75%, cioè 450 differenti etichette. Ciò è fattibile grazie ad una certa curiosità da parte della clientela, che apprezza  percorsi di abbinamento al calice intelligenti, che ci permettono di gestire una serie molto ampia di tipologie e categorie”.

Come funzionano da voi gli abbinamenti cibo-vino?
“Premessa importante: il locale con il quale sto collaborando ora ha al massimo 12 tavoli, per cui c’è tutto il tempo necessario per curare, anzi cullare il cliente che ha voglia di confrontarsi un po’ sulla scelta dei cibi o dei vini. Detto questo capita spesso che la maggior parte degli ospiti scelga i percorsi di abbinamento cibo-vino che abbiamo pensato. Ne abbiamo costruiti tre, con diversi livelli sia quantitativi che qualitativi. Li ho chiamati “percorso scoperta”, “percorso curiosità” e “percorso esperienza”, cioè due vini, tre oppure quattro, non mettiamo un limite alla quantità di vino, solamente al numero di referenze che il cliente assaggerà. In tal modo riusciamo a  gestire il numero di etichette e di bottiglie evitando sprechi; di conseguenza non abbiamo necessità particolari per lo stoccaggio dei vini da proporre alla mescita, macchinari particolari non ne abbiamo, solo un po’ di coraggio e buon senso”.

Nella creazione del menu lo chef tiene conto della cantina? Costruite insieme le due carte?
“Devo dire che Stefano, lo chef, ha un’ottima preparazione sul vino, e anche se costruisce i piatti del menu in assoluta autonomia, una volta pensati li testa anche con tutti noi, chiedendo se tale piatto potrà trovare uno o più abbinamenti con i vini presenti in carta. Talvolta capita che costruisca un piatto in rapporto alle idee che ci si scambia circa l’abbinamento ideale, c’è un’ottima complicità”.

Luigi Franchi

 Pubblicato su Cateringnews.it il 14 dicembre 2011


domenica 4 dicembre 2011

Primo: non sprecare




Per quanto tempo resterà nella memoria collettiva l’insegnamento che per sapere se un uovo è ancora fresco basta scuoterlo? Una considerazione banale che, con un piccolo sforzo di memoria, riporta alla mente decine di altri semplici gesti con cui, fino a pochi anni fa, si evitavano gli sprechi oggi indotti dalle scritte sulle etichette: consumare preferibilmente entro il…
Lo scuotimento dell’uovo non mi ha abbandonato neppure un istante mentre assistevo al 3° International Forum on Food and Nutrition, organizzato da Barilla Center for Food e Nutrition all’Università Bocconi a Milano. E, a furia di pensarci mentre venivano snocciolati dati impressionanti sullo spreco alimentare, sull’obesità e sulla malnutrizione, ho capito quanta cultura alimentare stava in quello e nei mille altri sapienti gesti che si sono compiuti nelle cucine degli italiani, nei ristoranti, nelle aziende agricole.
Una cultura che rischia di essere spazzata via, che in molti Paesi industrializzati non c’è già più: la conoscenza è sostituita dal prezzo e dalla praticità. Due tra gli elementi che generano quel 1,3 miliardi di tonnellate di cibo che ogni anno finiscono nella spazzatura, mentre un miliardo di persone non ha cibo sufficiente per sopravvivere.
La praticità ci sta spingendo verso la produzione di cibo sbagliato, come hanno sostenuto Ellen Gustafson, co-fondatrice del FEED Project, una società no-profit che crea buoni prodotti che aiutan a nutrire il mondo, e Vandana Shiva, fondatrice di Navdanya, movimento per la conservazione delle biodiversità e per i diritti degli agricoltori che sostiene che in realtà non cresce il cibo ma le commodity: “Si  sta tentando di separare il cibo dal concetto di nutrizione, la nutrizione dall’agricoltura e l’agricoltura dall’ambiente”.
Non è buon cibo quello che vede, nel 70% dei casi, sulle etichette almeno la presenza di una o più delle tre commodity – grano, soia e mais – ormai controllate da fondi finanziari che, guarda caso, sono quelli che hanno garantito i ritorni maggiori negli ultimi cinque anni. Non ci si nutre con la praticità, anzi si contribuisce all’enorme crescita dei rifiuti che, solo in Italia, stando alle parole di Andrea Segrè fondatore di Last Minute Market, pesa per 580 kg pro-capite all’anno, di cui il 20% in imballaggi: “Si tratta di 20 milioni di tonnellate di rifiuti che equivalgono ad uno spreco di 12 miliardi di euro”. Una enormità che produce un solo assurdo risultato: tasche più vuote e mondo più inquinato!
La causa sta in molti fattori ma il principale è il prezzo. “Il cibo costa troppo poco, ce n’è troppo, lo si tratta e lo si gestisce con superficialità perché conta di più l’aspetto esteriore di quello del gusto” ha spiegato il giornalista americano Jonathan Bloom, autore del blog Waster Food.
È vero, il cibo costa poco, troppo poco rispetto ai costi di produzione, soprattutto quelli agricoli che fanno lasciare nei campi, solo in Italia, 14 milioni di tonnellate di materie prime che hanno richiesto 12,6 miliardi di metri cubi di acqua per essere prodotti. Ma l’agricoltore non riusciva a sostenere ulteriori costi rispetto alla miseria con cui, ad esempio, quest’estate venivano retribuite le pesche: 5 chili per pagarsi un caffè al bar.
Allora vale davvero la pena di seguire il consiglio di Andrea Segrè: “Da domani, quando andate al supermercato, imponetevi di comprare solo dieci cose per volta. Non una di più. È un esercizio che potrebbe rivelarsi faticoso, ma fatelo. Cominciate così a ridurre gli sprechi.”
E torniamo ad ascoltare l’uovo.

Luigi Franchi
Pubblicato su Cateringnews.it giovedì 1 dicembre 2011