lunedì 5 gennaio 2009

Il freddo è totale!


Un’alba umida, nebbiosa, proprio come la si immagina durante il rito del “far su” il maiale, come si dice nelle province padane a ridosso del Po. La condizione ideale per il rapido raffreddamento dell’animale appena ucciso. Un rito che si ripete da tempo immemore, che in gran parte è stato sostituito dalle tecniche modernissime della produzione industriale ma che, nelle campagne, ancora perdura per l’autoconsumo. Un tempo, nei giorni tra Novembre e Gennaio, le cascine accoglievano singolari migratori: erano i norcini esperti dell’uccisione del maiale, una tecnica raffinata, con mani sapienti nel massaggiare le carni, nell’insaccarle, nel sezionare i pezzi migliori.
E l’arrivo coincideva con una vera e propria festa, che iniziava e terminava con l’assaggio delle parti più fresche dell’animale. Fino a poco tempo fa se ne mangiava addirittura il sangue, mescolandolo a latte e brodo in parti uguali (o formaggio e uova, secondo il gusto), assieme alla sugna tagliata a dadini e ai ciccioli, fatti cuocere per almeno un’ora in un soffritto di cipolle e prezzemolo, condito con sale e spezie a piacere.
Oggi il sanguinaccio non è più in commercio ma, quando si svolge la festa, in alcune cascine i più robusti lo mangiano ancora.
Siamo arrivati in una cascina padana, tra la pianura e le prime colline, e già da lontano si vedevano enormi paioli fumanti che mischiavano il loro vapore con quello della nebbia, brusio di voci, rumori di ferraglia che precede il rito finale; quello che è cominciato con l’acquisto del maiale, la sua crescita in questi casi mai forzata, il sacrificio dell’uccisione e poi, magicamente, una sorta di rinascita che ne celebra, per i lunghi mesi a venire, il piacere che danno le sue carni.
Il “Cocu” è già al lavoro da tempo. Il suo soprannome che tradotto è un vezzeggiativo, il cocco, se lo porta appresso fin da ragazzo e non se ne ricorda l’origine; probabilmente era un ragazzino timido, affettuoso, simpatico, da lì il termine. I tratti del viso lo fanno ancora immaginare così, nonostante il lavoro che si è scelto quasi trent’anni fa e che oggi lo rende uno dei norcini più apprezzati e ricercati nell’area che sta tra Parma e Piacenza, cuore della tradizione norcina.
Il suo vero nome è Giancarlo Andreoli ed è un vero boss a cui tutti questa mattina fanno riferimento: ordini chiari, scanditi con determinazione ai suoi aiutanti che cambiano ad ogni cascina.
Il maiale è già stato ucciso quando noi siamo arrivati, ora lo stanno lavando con acqua bollente, togliendo peli ed ogni altra sporcizia, per poi appenderlo per lasciare che le sue carni si raffreddino al punto giusto.
Fino agli anni Sessanta i peli del maiale venivano conservati dalle razdore che li vendevano al pollivendolo ambulante che, a sua volta, li vendeva ai fabbricanti di spazzole: era una piccola fonte di guadagno per le proprie piccole spese personali.
La pulizia crea un effetto attorno di bianco lattiginoso che copre anche le poche parti del paesaggio che emergono dalla nebbia e dall’alba. Ora ci si riposa un attimo, con un corroborante bicchiere di vino, mentre il norcino racconta di maiali fantastici che hanno attraversato la sua vita. Anni di esperienza che potrebbero benissimo essere trasferiti in un libro di favole per bambini, mille volte più educativo dei mostri che popolano attualmente la letteratura per ragazzi.
Ora si procede alla parte più importante del rito: il maiale viene sollevato tramite un paranco, con la testa in giù ché non tocchi per terra, il norcino da questo momento sa di essere al centro dell’attenzione, il silenzio di pochi secondi è il segnale dell’ammirazione e dell’orgoglio dei proprietari del maiale per essersi aggiudicati il miglior norcino che c’è sulla piazza.
In pochi attimi si pratica il primo perfettissimo taglio, dall’alto verso il basso, dividendo l’animale in due mezzene identiche; vengono asportate le frattaglie che, fino a non molto tempo fa, venivano utilizzate per condire una pastasciutta corroborante, il primo piatto di una lunga serie che scandisce il rito del “far su” il maiale.
Poi le mezzene vengono portate su un grosso tavolo e lì comincia la perfezione geometrica dei tagli, prima i prosciutti o i culatelli, poi nell’ordine spalle, lardo, pancetta, coppa, lombate, costine, lonze, filetti.
Intanto sono messi a cuocere i grassi che si trasformano in seducenti ciccioli e il loro profumo invade tutta la campagna, irresistibile.
Il lavoro non si placa, tritacarne all’opera per fare salami e salsicce, luganega e investiture che verranno messe a cuocere di lì a poco per poi finire tagliate a fette in mezzo a due fragranti fette di pane fatto in casa per una colazione inimitabile.
Ad osservare il Cocu al lavoro vengono in mente I 110 modi di far vivande del Porco descritti da Vincenzo Tanara nel 1745; e la fame si fa scatenante, l’alba ormai è un vago ricordo, il freddo totale è stato placato dai tiepidissimi raggi del sole e da due robustissimi sandwich con l’investitura; la fine del lavoro è ormai vicina e coinciderà con una dispensa ricca che servirà per un anno intero alla famiglia proprietaria del maiale. Ritornato sotto altre spoglie a portare piacere e allegria nella casa che lo ha allevato.

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