“A un certo punto della notte, furono risvegliati da
mille, soffocanti rumori e parve loro che la valle cominciasse a gorgogliare,
come se il suo fondo fosse costituito da un setaccio e un soffio impalpabile,
salendo dalle viscere della terra, avesse preso a fare il solletico alle
acque.” Sono parole tratte dal Ponte
delle Maravegie, un romanzo di Gabriele Franceschi che parla dell’antico Po
e descrive le saraghine, assurte a simbolo della filosofia di Massimo Bottura,
da pochi mesi il cuoco migliore al mondo, come ha decretato l’Accademia
Internazionale della Cucina a Parigi assegnando allo chef italiano il Grand
Prix de l'Art de la Cuisine, il riconoscimento più prestigioso al mondo.
L’ultimo italiano a cui venne assegnato fu Alfonso Iaccarino, nel 2000.
Dieci anni dopo, lo stesso tempo che è servito alla
cucina italiana per affrontare una profonda evoluzione, mantenendo ben saldo il
rapporto con la tradizione. Proprio quella tradizione che Massimo, in questa
intervista, racconta con la metafora della saraghina.
Come si cambia?
“In continuazione, con le esperienze di tutti i giorni,
con gli occhi e le orecchie che diventano come spugne per consentirci di
imparare e diventare migliori. Io mi metto sempre, quotidianamente, in discussione:
il dubbio tremendo, quello stesso che ha caratterizzato la vita di grandi
persone, come Galileo Galilei, che rivendica l’autonomia degli ‘occhi della
mente e della fronte’ mi accompagna sempre. Senza il dubbio si smette di
crescere. Con esso si cambia, io cambio in meglio.”
Sapere di essere il
migliore cuoco al mondo, dopo questi mesi, cosa significa per lei?
“Fino all’annuncio
ufficiale, non sapevo niente del premio che mi è stato assegnato. Ma quando ne
ho letto le motivazioni mi ci sono pienamente riconosciuto: tradizione, scienza
e arte. Non dimentico mai chi sono e da dove vengo, la mia terra, le persone
che ho attorno, con cui sono cresciuto. Ma guardo a loro e al territorio senza
spirito di nostalgia, ma proiettandoli al futuro. Lo stesso faccio con la mia
cucina, attraverso le materie prime, tramite una tecnica umile per esaltarne i
valori e i sapori. Mi piace raccontare la storia dell’anguilla e degli Estensi.
L’impossibilità di mantenere le concessioni per la pesca, nel Cinquecento, li
spinsero verso l’interno, verso questa città dove vendettero la cultura per
costruire il palazzo ducale. Ma essi incontrarono la civiltà e la cultura
contadina in questo viaggio. Ecco, nel mio piatto ho il sogno di farci stare dentro
tutto questo.”

“L’arte contemporanea non è capita, come non lo era il
mio croccantino di foie gras. Nel 2000 lo buttavo via, nessuno lo voleva. In
quegli anni stavo pensando di chiudere.”
Invece Massimo è rimasto, affermando le sue idee, i suoi
piatti, trasmettendo i valori alle persone che lavorano con lui. Una brigata di
ragazze e ragazzi tra i 19 e i 30 anni, con cui Massimo si confronta ogni
giorno: “I giovani sono il futuro, bisogna metterli in condizione di studiare,
devono studiare il più a lungo possibile, non devono entrare subito in cucina,
devono studiare. E all’alberghiera devono andarci ma per scelta, non per
imposizione o ripiego o, peggio ancora, moda. Solo se si ama studiare si può
crescere, capire, approfondire gli interessi e trasformarli in passione ed
entusiasmo. Da me c’è una brigata di ragazzi e ragazze tra i 19 e i 30 anni. Me
la sono costruita con la stessa regola: motivazione ed entusiasmo, e ogni
riconoscimento che ricevo non è il mio, è di tutti noi. La brigata di sala è
fondamentale, ad essa è affidato il nostro pensiero, sono loro che devono
trasferirlo. È stato Alain Ducasse ad insegnarmi una regola fondamentale: le
riunioni tra sala e cucina. Le facciamo regolarmente.”
Questo flusso di
comunicazione mi porta ad una riflessione sul modo di raccontare il mondo
dell’enogastronomia che, in Italia, riempie ormai ogni spazio. Non le sembra
eccessivo?
“C’è anche qui una selezione naturale, chi sa scrivere e
raccontare in maniera corretta cresce. I giornali hanno certo aiutato il nostro
mondo, piano piano ci si accultura e quindi si migliora. Ora è necessario fare
di più. Ora è importante che non ci sia confusione, che si distingua tra i vari
livelli della ristorazione, che sia chiaro che l’alta ristorazione non è mai popolare.
Altrimenti non si può spiegare e capire perché in ristoranti come il mio ci
sono 20 persone per 30 coperti.”
Come sceglie i
fornitori?
“I fornitori sono fondamentali, il buon rapporto con loro
ti permette di avere il più fresco, la miglior materia prima possibile, sia che
si tratti di un taglio di carne, o della carota di Giovanni della Lanterna di Diogene.
O il parmigiano di Marchi o Panini. Il meglio del meglio, quello che ti fa
recepire l’emozione al palato, il sogno.”
La sensazione è che
le persone che scelgono un ristorante oggi siano più attente ed esigenti…
“Il cliente è cresciuto moltissimo negli ultimi anni,
analizza, conosce le tecniche, grazie ai congressi può capire ed educarsi alle
differenze, conoscere cosa ci sta davvero dietro ad un piatto. Grazie alle
Soste e ai Cavalieri (associazioni di ristoratori di cui Massimo fa parte ndr) abbiamo
coperto l’Italia di grandi ristoranti. La gente può muoversi e capire. Ma
questo è avvenuto grazie al fatto che tra noi facciamo squadra, condividiamo
degli obiettivi.”
Qual è il suo
piatto della memoria?
“Sicuramente il tortellino. Ricordo quando, da bambino,
mi nascondevo sotto il tavolo mentre mia nonna faceva la pasta. Ricordo il
fascio di luce che tagliava la sfoglia lanciata per aria. Dalla trasparenza
distinguevano la sfoglia da tagliatella da quella da tortellino. E poi il
rubarli sulla tavola, da mangiare crudi. Quindi il mio piatto è il tortellino
crudo.”
E la materia prima
che ama di più?
“Sono troppe quelle a cui sono legato, però una c’è.
Quella buona!”
Luigi Franchi
Pubblicato su Catering,
rivista della ristorazione e dei consumi
fuori casa – Maggio 2011
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