martedì 1 novembre 2011

Carlo Petrini: la memoria ci insegna la via per il futuro

Non servono presentazioni e la gioia di poter conversare con Carlo Petrini, fondatore di Slow Food e tra le “50 persone che potrebbero salvare il mondo”, secondo il Time Magazine, è talmente grande che va condivisa con tutti i nostri lettori.
Come si cambia?
“Credo che oggi si cambi attraverso lente ma profonde trasformazioni che si percepiscono nella loro  grandezza soltanto dopo un po’ di tempo che sono cominciate. Mi piace sempre citare una frase di Edgar Morin che dice “Tutto deve ricominciare e tutto è già ricominciato”. Mi sembra paradigmatica dei nostri tempi, in cui sempre più spesso processi democratici dal basso cambiano le cose in silenzio, ma con grande determinazione. Anche nel mondo del cibo sta avvenendo questo: tutto deve ricominciare perché il sistema attuale è fortemente insostenibile sotto più punti di vista, ma tutto è già ricominciato perché se guardo a Terra Madre, ai farmers’ markets, agli orti urbani in tutto il mondo, alle nuove sensibilità dei giovani verso le tematiche del cibo e dell’ambiente, non posso che constatare che siamo entrati in una nuova fase, dove si stanno piano piano imponendo nuovi paradigmi, sempre più necessari”.
Tre anni fa, inaugurando Terra Madre, lei profetizzò che la crisi avrebbe dato nuovo valore alla terra, al lavoro manuale, al rispetto per l’economia rurale. Questi dati sono puntualmente confermati. Da adesso in poi cosa è necessario fare?
“È necessario insistere e continuare su questa strada. Tre anni fa questi valori erano meno rispettati e considerati di oggi, così come lo erano ancora meno dieci anni fa. Rimane molto da fare perché il mondo economico e politico è ancora piegato su paradigmi vecchi e inadeguati alle nuove esigenze del mondo e dell’umanità. Si tende a considerare questi elementi come marginali, così come marginale viene considerata l’umanità che se ne fa portatrice. Ma stiamo parlando ancora di circa la metà della popolazione mondiale, mentre nelle città di tutto il mondo crescono queste sensibilità e si stringono nuove alleanze con il mondo contadino. Queste opzioni sono di grande modernità, o se vogliamo di post-modernità, perché scardinano un modo di pensare che ci ha indotti a depredare la Terra senza ritegno, rischiando il collasso. Io ho fiducia, perché vedo queste persone che lavorano nei campi in maniera pulita e rispettosa della natura, vedo i cittadini che ricercano i loro prodotti attraverso forme di distribuzione alternativa e capisco che un reale cambiamento si può realizzare, e che oltretutto non comporta grandi sacrifici, anzi, è piuttosto piacevole”.
Le bolle speculative stanno generando fortissimi aumenti delle matierie prime, aumentando le disparità tra paesi ricchi e paesi poveri, con uno spreco inaudito del cibo nei paesi industrializzati. Cosa serve per contrastare questa tendenza?
“L’unica soluzione è una presa di coscienza dei singoli, che induca a cambiare radicalmente il proprio modo di comportarsi. Anche questo è un processo già partito, ma che ora dovrà diventare di massa.  Le speculazioni finanziarie sono figlie di un modo di fare economia vecchio e destinato a finire, prima o poi; lo spreco è una cosa su cui, con un po’ di attenzione, possiamo incidere tutti. Prima non se ne parlava neanche, oggi ne siamo un po’ più consapevoli e mettendo in atto piccole rivoluzioni quotidiane, nelle nostre famiglie, potremmo fare molto”.
La memoria è un tema a lei caro. Riesce ad affrontarlo senza scadere nella nostalgia. Come ci riesce, quale valore attribuisce ad essa, e come si può trasferirla?
“È sufficiente constatare come la memoria ci insegna la via per il futuro,  perché a questo serve, non a fare i nostalgici. Prendiamo lo spreco: se si ha memoria si impara che i nostri vecchi neanche se lo sognavano di sprecare il cibo: anzi, si sono inventati dei modi eccezionali per recuperare tutto. Lo dimostra il fatto che molte delle nostre migliori ricette tradizionali proprio per questo scopo sono nate. Pensi alla ribollita, all’uso del pane vecchio, ai ripieni delle paste ripiene, alle virtù teramane, a mille altre ricette che utilizzano l’usato e l’avanzato. Non solo sono un modo intelligente di non buttare via la roba, sono anche buonissime e i cardini della nostra identità gastronomica! Non pensarci è da stolti, non praticarle è da autolesionisti. La cultura contadina, che è stata buttata via come il bambino con l’acqua sporca per cancellare secoli di stenti, in realtà ha ancora un valore straordinario se riportata ai nostri tempi. Il ritorno a questi valori potrebbe essere molto più semplice di quanto non sembri, ma senza memoria si fa fatica”.
Terra madre e le comunità del cibo. L’appuntamento di Torino è la dimostrazione che comunicare si può, anche oltre la difficoltà linguistica. Qual è lo stato dell’arte? Come sta crescendo questa nuova rivoluzione?
Alla parola rivoluzione preferisco trasformazione, e ho già spiegato perché. Terra Madre cresce piano, lentamente, slow. Ma monta come un fiume in piena, perché ha forma di rete e le reti non si possono controllare, possono solo crescere secondo i valori di cui sono portatrici. Al di là dei meeting torinesi, oggi siamo a più di 2.000 comunità in 153 Paesi del mondo che costituiscono una rete attiva e permanente, che lavora ogni giorno. Terra Madre rappresenta circa un milione di persone; un’umanità straordinaria, senza divisioni, che lavora nella stessa direzione. Io credo che possano arrivare a influenzare la politica, le decisioni cruciali che si stanno prendendo nel mondo. Faccio l’esempio del Farm Bill, la legge agricola che si sta discutendo negli U.S.A e che entrerà in vigore nel 2012, o della P.A.C., la politica agricola comune Europea che partirà dal 2013: Terra Madre sta già lavorando per far sentire la sua voce, siamo ascoltati dai commissari incaricati di ridisegnare queste carte fondamentali per il futuro del cibo. È un grande risultato, uno dei tanti, come quello di aver ridato dignità a queste persone, e fatto sentire la loro voce”.
Si avvicina rapidamente Expo 2015 e la sensazione diffusa è che si sta perdendo di vista il tema rispetto al fenomeno dei grandi numeri, di aree e di visitatori. Cosa intende fare Slow Food per ‘Nutrire il pianeta, energie per la vita’?
“Che a partire dal cibo si può ridisegnare il nostro rapporto con il Pianeta, in maniera sostenibile. È il cardine attorno al quale ruota tutto: le nostre attività, la nostra cultura, la nostra identità umana, il nostro futuro. Se non si parte da lì si perde di vista il punto d’arrivo e si sbaglia. Si abbracciano modi di vedere la vita e il mondo che sviliscono sia la vita sia il mondo”.
Spesso lei e il suo movimento avete dovuto fare i conti con un’errata interpretazione, fatta dai media e dai politici, del diritto al piacere. Vogliamo ribadirne il significato?
“Il piacere è prima di tutto un diritto, perché è fisiologico e chiunque può provarlo. Purtroppo viene identificato con il lusso e con la ricchezza, ma non è così anzi, lusso e ricchezza possono svuotare facilmente il senso del piacere e portare alla noia esistenziale. Il piacere è un motore delle nostre vite, che va ricercato soprattutto nelle piccole cose e rispettato, garantito a tutti perché è una cosa umana, naturale. Per piacere s’intende il fatto di vivere bene con soddisfazione e in armonia con ciò che ci circonda. Con moderazione e buon senso. Un’honesta voluptate. E visto che tutto parte dal cibo, il piacere del cibo è una delle prime cose che dobbiamo imparare a praticare, lontano da lussi e status symbol, come forma di godimento della vita, semplice e profondo, insieme a tutti i valori di cui il cibo è portatore”.
Qual è il suo piatto della memoria?
“Per non fare il nostalgico, rispondo che è la curiosità. I piatti che mi ricordano i luoghi in cui sono stato, in cui ho ritrovato i modi di vivere di intere civiltà, storie fantastiche, territori meravigliosi”.
E la materia prima o l’ingrediente che ama di più?
“Quella buona, pulita e giusta”.

Luigi Franchi
Pubblicato su Catering, rivista della ristorazione  e dei consumi fuori casa – Luglio 2011


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