Non servono presentazioni
e la gioia di poter conversare con Carlo Petrini, fondatore di Slow Food e tra
le “50 persone che potrebbero salvare il mondo”, secondo il Time Magazine, è
talmente grande che va condivisa con tutti i nostri lettori.
Come si cambia?
“Credo che oggi si cambi
attraverso lente ma profonde trasformazioni che si percepiscono nella loro grandezza soltanto dopo un po’ di tempo che
sono cominciate. Mi piace sempre citare una frase di Edgar Morin che dice
“Tutto deve ricominciare e tutto è già ricominciato”. Mi sembra paradigmatica
dei nostri tempi, in cui sempre più spesso processi democratici dal basso
cambiano le cose in silenzio, ma con grande determinazione. Anche nel mondo del
cibo sta avvenendo questo: tutto deve ricominciare perché il sistema attuale è
fortemente insostenibile sotto più punti di vista, ma tutto è già ricominciato
perché se guardo a Terra Madre, ai farmers’ markets, agli orti urbani in tutto
il mondo, alle nuove sensibilità dei giovani verso le tematiche del cibo e
dell’ambiente, non posso che constatare che siamo entrati in una nuova fase,
dove si stanno piano piano imponendo nuovi paradigmi, sempre più necessari”.
Tre anni fa, inaugurando Terra Madre, lei profetizzò che la crisi
avrebbe dato nuovo valore alla terra, al lavoro manuale, al rispetto per
l’economia rurale. Questi dati sono puntualmente confermati. Da adesso in poi
cosa è necessario fare?
“È necessario insistere e
continuare su questa strada. Tre anni fa questi valori erano meno rispettati e
considerati di oggi, così come lo erano ancora meno dieci anni fa. Rimane molto
da fare perché il mondo economico e politico è ancora piegato su paradigmi
vecchi e inadeguati alle nuove esigenze del mondo e dell’umanità. Si tende a
considerare questi elementi come marginali, così come marginale viene
considerata l’umanità che se ne fa portatrice. Ma stiamo parlando ancora di
circa la metà della popolazione mondiale, mentre nelle città di tutto il mondo
crescono queste sensibilità e si stringono nuove alleanze con il mondo
contadino. Queste opzioni sono di grande modernità, o se vogliamo di
post-modernità, perché scardinano un modo di pensare che ci ha indotti a
depredare la Terra senza ritegno, rischiando il collasso. Io ho fiducia, perché
vedo queste persone che lavorano nei campi in maniera pulita e rispettosa della
natura, vedo i cittadini che ricercano i loro prodotti attraverso forme di
distribuzione alternativa e capisco che un reale cambiamento si può realizzare,
e che oltretutto non comporta grandi sacrifici, anzi, è piuttosto piacevole”.
Le bolle speculative stanno generando fortissimi aumenti delle matierie
prime, aumentando le disparità tra paesi ricchi e paesi poveri, con uno spreco
inaudito del cibo nei paesi industrializzati. Cosa serve per contrastare questa
tendenza?
“L’unica soluzione è una
presa di coscienza dei singoli, che induca a cambiare radicalmente il proprio
modo di comportarsi. Anche questo è un processo già partito, ma che ora dovrà
diventare di massa. Le speculazioni
finanziarie sono figlie di un modo di fare economia vecchio e destinato a
finire, prima o poi; lo spreco è una cosa su cui, con un po’ di attenzione,
possiamo incidere tutti. Prima non se ne parlava neanche, oggi ne siamo un po’
più consapevoli e mettendo in atto piccole rivoluzioni quotidiane, nelle nostre
famiglie, potremmo fare molto”.
La memoria è un tema a lei caro. Riesce ad affrontarlo senza scadere
nella nostalgia. Come ci riesce, quale valore attribuisce ad essa, e come si
può trasferirla?
“È sufficiente constatare
come la memoria ci insegna la via per il futuro, perché a questo serve, non a fare i
nostalgici. Prendiamo lo spreco: se si ha memoria si impara che i nostri vecchi
neanche se lo sognavano di sprecare il cibo: anzi, si sono inventati dei modi
eccezionali per recuperare tutto. Lo dimostra il fatto che molte delle nostre
migliori ricette tradizionali proprio per questo scopo sono nate. Pensi alla
ribollita, all’uso del pane vecchio, ai ripieni delle paste ripiene, alle virtù
teramane, a mille altre ricette che utilizzano l’usato e l’avanzato. Non solo
sono un modo intelligente di non buttare via la roba, sono anche buonissime e i
cardini della nostra identità gastronomica! Non pensarci è da stolti, non praticarle
è da autolesionisti. La cultura contadina, che è stata buttata via come il
bambino con l’acqua sporca per cancellare secoli di stenti, in realtà ha ancora
un valore straordinario se riportata ai nostri tempi. Il ritorno a questi
valori potrebbe essere molto più semplice di quanto non sembri, ma senza
memoria si fa fatica”.
Terra madre e le comunità del cibo. L’appuntamento di Torino è la
dimostrazione che comunicare si può, anche oltre la difficoltà linguistica.
Qual è lo stato dell’arte? Come sta crescendo questa nuova rivoluzione?
Alla parola rivoluzione
preferisco trasformazione, e ho già spiegato perché. Terra Madre cresce piano,
lentamente, slow. Ma monta come un fiume in piena, perché ha forma di rete e le
reti non si possono controllare, possono solo crescere secondo i valori di cui
sono portatrici. Al di là dei meeting torinesi, oggi siamo a più di 2.000
comunità in 153 Paesi del mondo che costituiscono una rete attiva e permanente,
che lavora ogni giorno. Terra Madre rappresenta circa un milione di persone; un’umanità
straordinaria, senza divisioni, che lavora nella stessa direzione. Io credo che
possano arrivare a influenzare la politica, le decisioni cruciali che si stanno
prendendo nel mondo. Faccio l’esempio del Farm Bill, la legge agricola che si
sta discutendo negli U.S.A e che entrerà in vigore nel 2012, o della P.A.C., la
politica agricola comune Europea che partirà dal 2013: Terra Madre sta già
lavorando per far sentire la sua voce, siamo ascoltati dai commissari
incaricati di ridisegnare queste carte fondamentali per il futuro del cibo. È
un grande risultato, uno dei tanti, come quello di aver ridato dignità a queste
persone, e fatto sentire la loro voce”.
Si avvicina rapidamente Expo 2015 e la sensazione diffusa è che si sta
perdendo di vista il tema rispetto al fenomeno dei grandi numeri, di aree e di
visitatori. Cosa intende fare Slow Food per ‘Nutrire il pianeta, energie per la
vita’?
“Che a partire dal cibo
si può ridisegnare il nostro rapporto con il Pianeta, in maniera sostenibile. È
il cardine attorno al quale ruota tutto: le nostre attività, la nostra cultura,
la nostra identità umana, il nostro futuro. Se non si parte da lì si perde di
vista il punto d’arrivo e si sbaglia. Si abbracciano modi di vedere la vita e
il mondo che sviliscono sia la vita sia il mondo”.
Spesso lei e il suo movimento avete dovuto fare i conti con un’errata
interpretazione, fatta dai media e dai politici, del diritto al piacere.
Vogliamo ribadirne il significato?
“Il piacere è prima di
tutto un diritto, perché è fisiologico e chiunque può provarlo. Purtroppo viene
identificato con il lusso e con la ricchezza, ma non è così anzi, lusso e
ricchezza possono svuotare facilmente il senso del piacere e portare alla noia
esistenziale. Il piacere è un motore delle nostre vite, che va ricercato
soprattutto nelle piccole cose e rispettato, garantito a tutti perché è una
cosa umana, naturale. Per piacere s’intende il fatto di vivere bene con
soddisfazione e in armonia con ciò che ci circonda. Con moderazione e buon senso.
Un’honesta voluptate. E visto che
tutto parte dal cibo, il piacere del cibo è una delle prime cose che dobbiamo
imparare a praticare, lontano da lussi e status symbol, come forma di godimento
della vita, semplice e profondo, insieme a tutti i valori di cui il cibo è
portatore”.
Qual è il suo piatto della memoria?
“Per non fare il
nostalgico, rispondo che è la curiosità. I piatti che mi ricordano i luoghi in
cui sono stato, in cui ho ritrovato i modi di vivere di intere civiltà, storie
fantastiche, territori meravigliosi”.
E la materia prima o l’ingrediente che ama di più?
“Quella buona, pulita e
giusta”.
Luigi Franchi
Pubblicato su Catering, rivista della ristorazione e dei consumi fuori casa – Luglio 2011