Per quanto tempo resterà nella
memoria collettiva l’insegnamento che per sapere se un uovo è ancora fresco
basta scuoterlo? Una considerazione banale che, con un piccolo sforzo di
memoria, riporta alla mente decine di altri semplici gesti con cui, fino a
pochi anni fa, si evitavano gli sprechi oggi indotti dalle scritte sulle
etichette: consumare preferibilmente entro il…
Lo scuotimento dell’uovo non
mi ha abbandonato neppure un istante mentre assistevo al 3° International Forum
on Food and Nutrition, organizzato da Barilla Center for Food e Nutrition
all’Università Bocconi a Milano. E, a furia di pensarci mentre venivano
snocciolati dati impressionanti sullo spreco alimentare, sull’obesità e sulla
malnutrizione, ho capito quanta cultura alimentare stava in quello e nei mille
altri sapienti gesti che si sono compiuti nelle cucine degli italiani, nei
ristoranti, nelle aziende agricole.
Una cultura che rischia di
essere spazzata via, che in molti Paesi industrializzati non c’è già più: la
conoscenza è sostituita dal prezzo e dalla praticità. Due tra gli elementi che
generano quel 1,3 miliardi di tonnellate di cibo che ogni anno finiscono nella
spazzatura, mentre un miliardo di persone non ha cibo sufficiente per
sopravvivere.
La praticità ci sta spingendo
verso la produzione di cibo sbagliato, come hanno sostenuto Ellen Gustafson,
co-fondatrice del FEED Project, una società no-profit che crea buoni prodotti
che aiutan a nutrire il mondo, e Vandana Shiva, fondatrice di Navdanya, movimento
per la conservazione delle biodiversità e per i diritti degli agricoltori che
sostiene che in realtà non cresce il cibo ma le commodity: “Si sta tentando di separare il cibo dal concetto
di nutrizione, la nutrizione dall’agricoltura e l’agricoltura dall’ambiente”.
Non è buon cibo quello che
vede, nel 70% dei casi, sulle etichette almeno la presenza di una o più delle
tre commodity – grano, soia e mais – ormai controllate da fondi finanziari che,
guarda caso, sono quelli che hanno garantito i ritorni maggiori negli ultimi
cinque anni. Non ci si nutre con la praticità, anzi si contribuisce all’enorme
crescita dei rifiuti che, solo in Italia, stando alle parole di Andrea Segrè
fondatore di Last Minute Market, pesa per 580 kg pro-capite all’anno, di cui il
20% in imballaggi: “Si tratta di 20 milioni di tonnellate di rifiuti che
equivalgono ad uno spreco di 12 miliardi di euro”. Una enormità che produce un
solo assurdo risultato: tasche più vuote e mondo più inquinato!
La causa sta in molti fattori
ma il principale è il prezzo. “Il cibo costa troppo poco, ce n’è troppo, lo si
tratta e lo si gestisce con superficialità perché conta di più l’aspetto
esteriore di quello del gusto” ha spiegato il giornalista americano Jonathan
Bloom, autore del blog Waster Food.
È vero, il cibo costa poco, troppo poco rispetto ai costi di
produzione, soprattutto quelli agricoli che fanno lasciare nei campi, solo in
Italia, 14 milioni di tonnellate di materie prime che hanno richiesto 12,6
miliardi di metri cubi di acqua per essere prodotti. Ma l’agricoltore non
riusciva a sostenere ulteriori costi rispetto alla miseria con cui, ad esempio,
quest’estate venivano retribuite le pesche: 5 chili per pagarsi un caffè al
bar.
Allora vale davvero la pena di
seguire il consiglio di Andrea Segrè: “Da domani, quando andate al
supermercato, imponetevi di comprare solo dieci cose per volta. Non una di più.
È un esercizio che potrebbe
rivelarsi faticoso, ma fatelo. Cominciate così a ridurre gli sprechi.”
E torniamo ad ascoltare l’uovo.
Luigi Franchi
Pubblicato su Cateringnews.it giovedì 1 dicembre 2011
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