Di Gualtiero Marchesi si è forse detto e scritto tutto ma
con la tendenza a dire cosa ha fatto, ricordandone la fama internazionale e i
celebratissimi piatti, oppure esprimendo pareri controversi su alcune scelte
come, ad esempio, l’ultima che lo ha visto collaborare con la catena
McDonald’s. Parlare con lui però è sempre un’altra cosa: “diversamente utile” per
parafrasare uno dei suoi neologismi preferiti.
Difficile, ad esempio, che l’intervista proceda secondo
binari classici, si chiede di cucina e ci si ritrova a disquisire su Massimo
Mila, il musicologo autore della Storia
della musica, oppure si parla di paesaggio ed ecco che esce l’aneddoto di
un piatto ispirato da una montagna. Quella che segue è quindi un tentativo di
mettere ordine in una lunga conversazione da cui esce il ritratto di un
pimpante ottuagenario proiettato verso un futuro di ricerca e semplicità.
Si comincia… Cosa
la spinse a viaggiare, scoprire, capire cosa succedeva negli anni ’50 nella
cucina internazionale e italiana?
“Sono nato figlio di albergatori e ristoratori con una
iniziale scarsa voglia di studiare, ancor meno di seguire la strada dei miei
genitori. Fu mia madre che, con uno spettacolare colpo d’ala, mi spedì a 17
anni al Kulm Hotel di St. Moritz. Mi sono entusiasmato di quello stile e, in
quel momento, mi sono reso conto dell’ambiente straordinario in cui ero nato.
Fu così che decisi di iscrivermi alla scuola alberghiera a Lucerna. Alla scuola
seguirono molti anni al Mercato, l’albergo dei miei genitori, dove passavano
tutti, Fellini, Visconti, Testori che definì il nostro ristorante tra i
migliori degli alberghi in Europa. Poi l’incontro con mia moglie che mi ha
appassionato alla musica, con lei ho cominciato a studiare il piano. Sono state
queste due donne che hanno influito sulla mia formazione e vita. Il passaggio
successivo fu la Francia e l’incontro con Troisgros, da cui me ne andai solo
dopo aver capito. Capito cosa? Mi disse. Vedrai, fu la mia risposta. Infine il
Bonvesin della Riva e tutto il resto”.
Il resto è noto:
primo tre stelle in Italia, piatti entrati nella storia, Albereta, il rifiuto
di essere giudicato dalle guide, il ruolo di Rettore ad ALMA, la Scuola di Alta
Cucina…
“Dove voglio essere sfruttato meglio. Vedi, ALMA ha fatto
consulenza in molti paesi, con grande successo commerciale ma ora bisogna
creare futuro. Ormai quella è la mia scuola, ma in tanti mi chiedono ma lei
cosa c’entra qua? Non serve che io faccia una lezione ogni tanto o presenzi
agli eventi. Mi piacerebbe invece ospitare lì la mia Fondazione che vuol fare
formazione su arte, cucina e musica. Io sono in piena fase creativa, devo
vedere delle cose, non puoi stare troppo lontano dal mondo: Marrakech, Shangai,
Londra e New York saranno le mie prossime mete. Ed è proprio la mia curiosità
che vorrei mettere a disposizione di ALMA”.
Albino Ivardi
Ganapini, in altra parte della rivista, afferma che è grazie a lei che ALMA ha
potuto diventare ciò che oggi è, perché lei ha chiesto di coinvolgere i
migliori chef rappresentanti delle cucine dei territori italiani. Come si
definisce una buona cucina?
“La cucina è prima di tutto una scienza, qualcuno ci ha
definiti chimici dell’intuizione, sta lì la coniugazione perfetta tra scienza
ed arte. Bach diceva ‘non è importante come tocchi il tasto, perché io ho già
fatto tutto nella composizione’. E il piatto è la stessa cosa, prima c’è la
composizione, la conoscenza della materia. ‘La musica non sono solo suoni, sono
tempo e memoria’ scriveva Massimo Mila.
Lo si può applicare anche alla cucina”.
Il parallelo con la
musica è una costante del pensiero di Gualtiero Marchesi. Non potrebbe essere
altrimenti, visto che moglie, figlie e nipoti vivono nella musica. Su questo
costruisce esempi infiniti.
“Uno riguarda mio nipote Bartolomeo Dandolo Marchesi che
a 14 anni mi disse: ‘nonno che bello ho suonato in orchestra’. Pensa a quanto
allenamento, dedizione e passione ci sta dietro ad un’orchestra: è così, deve
essere così anche in cucina: poi c’è il caso che diventi cuoco ma non è detto.
Ora invece tutti si ritengono già dei compositori, ma i creativi in realtà sono
solo i bambini. Se facessero un Masterchef per bambini allora sì, accetterei di
fare la giuria”.
La scelta della
materia prima: oggi va di moda andare alla ricerca del prodotto di nicchia.
Quanto vale questo concetto per lei che ha lavorato spesso in controtendenza,
anche per l’industria?
“Quando stavo
a Milano tutte le mattine andavo al mercato, avevo fatto fare un punzone per
segnare le lombate di 40/50 chili che selezionavo e poi facevo frollare 40/50
giorni. Ma la buona materia prima è anche altrove. Ti racconto una cosa:
nell’ottobre 2002, quando l’Accademia Internazionale della Gastronomia
mi assegna il Grand Prix “Mémoire et Gratitude”a Lione, al mattino esco e
nell’edicola francese campeggia un giornale con la foto di Bernard Loiseau (lo
chef più amato di Francia, insieme a Paul Bocuse ndr) con sotto il titolo ‘Il futuro della cucina è nell’industria’ ed è vero! In questo
momento però il problema è un altro: abbiamo il guaio che il ristorante soffre
del rapporto con il cliente perché manca l’oste, quello che sta attento ai
bisogni del cliente”.
Come si risolve?
“Da me non succede perché abbiamo tolto il giochino. In
sala si conclude la preparazione del piatto. Se ti faccio la salsa necessaria
al piatto, che la metta il cuoco o il maitre di sala è lo stesso. In tal modo
lo invogli a raccontare. Vengo dall’esperienza del grande albergo, dove c’era
di tutto. Quando ero ragazzo c’era il maitre de plaisir, in grado di fare
tutto, anche andare giocare a tennis con il cliente. La scuola di ALMA dovrebbe
avere anche questo spirito”.
Cosa concorre a
fare l’estetica nel piatto?
“ Prima mettiamoci d’accordo su cos’è l’estetica. Per me
l’estetica comprende l’etica. Mia figlia dice ‘il bello puro è il vero buono’. A
prescindere. Tempo fa, ad una cena, venne portato in tavola un risotto
primavera, era talmente bello che affermai ‘potrei persino dirvi che è perfetto
anche di sale talmente è bello’. La verità della forma è l’unica strada per
eliminare l’inganno dell’apparenza, dice spesso mia figlia Paola e quelle
parole mi sono tornate in mente sul lago d’Iseo, nei pressi di Lovere, dove c’è
un piccolo spazio che guarda una montagna: ‘Così bello da sembrare finto… ed
essere vero’ c’era scritto su un libro in pietra posato davanti al panorama, lo
aveva scritto Raul Montanari. A quella montagna, così perfetta, mi sono ispirato
per fare un piatto che ho in carta al Marchesino: la tartare, preparata in uno
stampo a piramide che ho fatto fare appositamente, intorno la salsa. Così ho
tirato fuori la materia”.
Come costruisce il
menu?
“Quando faccio il menu degustazione lo penso con i tempi
giusti: quanto deve frollare la carne, quanto tempo deve passare tra una
portata e l’altra, vado a fare la spesa in funzione di questo. E mi ispiro
spesso al kaiseki giapponese: laggiù
lo fanno i grandi chef anziani ed è basato sulla presentazione per ammirare la
maestria di chi prepara il piatto, perché sa sistemare e presentare i cibi con
grande eleganza e sofisticatezza. Nulla viene messo a casaccio. La posizione di
ogni singolo elemento viene attentamente studiata, in modo che il risultato
finale sia un magnifico intreccio armonico di colori, forme e sapori. Questo mi
ha portato ad ideare Marchesi Arte, un menu degustazione che è anche scuola di
cucina fatta in sala. Poi ho il menu ‘meno cucina’, estratto dalla gran carta.
Infine quattro menu: intorno allo
spaghetto, intorno al riso, tutta pasta e le paste farcite”.
Semplicità e
leggerezza sono le sue parole preferite…
“Io sono italiano, uso la materia nostra, non sono di
scuola francese, ciò che ho visto non è cucina francese, è internazionale. Ad
esempio anni fa raccontai a Gianni Brera il mio risotto alla certosina, dove
avevo scomposto tutto. Brera, dopo avermi ascoltato, mi disse: va bene ma vuoi
mettere un bel riso in cagnon con due filetti di persico? Io avevo le mie
ragioni e lui le sue: lui era l’uomo della
semplicità e io della leggerezza. Di recente ho fatto il menu Verso la
purezza, un mio amico ha disegnato per il menu due righe che richiamano il
calice, giocando sulla parola verso”.
Si parla anche di
altro, anzi c’è in atto una certa fenomenologia di chef che diventano tutto ma
soprattutto impera il linguaggio auto celebrativo. Cosa ne pensa?
“La cronaca, ma come ci si permetti di dare dei giudizi.
L’importante è che sia diversamente buono e diversamente bello. Bisogna
smetterla di sputare sentenze”.
Il futuro come
sarà?
“Il futuro sono io. Scherzi a parte, come finirà questa
storia della cucina? Non lo so, c’è un ripristino per i prodotti della terra ma
chi ci torna alla terra? Il mondo è diventato enorme, difficile pensare cosa
avverrà? Io vado verso la materia e la purezza. L’importante è crearsi uno
stile purché le cose siano buone. Vorrei che ALMA fosse una scuola di questo
tipo, in grado di creare uno stile”.
Da maestro quali
sono i suoi maestri?
“Il maestro è quello che insegna con l’esempio”.
Qual è il suo piatto
della memoria?
“Devo andare molto indietro, quando ero bambino. Il paese
di mio padre era San Zenone Po: mangiare il minestrone davanti alla porta di
casa e il bottaggio, la cassoeula con il pollo. Poi il secchio del rame che
tiravo su dal pozzo e bevevo l’acqua con il ramaiolo. Questi sono i tre piatti
della memoria ed è la prima volta che parlo di queste cose, pensa cosa mi fai
ricordare”.
Poi la conversazione continua ma è un’altra storia fatta
di preziosi insegnamenti.
Luigi Franchi
Intervista pubblicata sulla rivista Catering-Ristorazione e consumi fuori casa
numero di maggio/giugno 2012