lunedì 31 ottobre 2011

Una targa, una pacca sulla spalla e via …


Se al posto dell’autocelebrazione Formigoni-Brambilla si fosse data la parola, anche solo per una battuta su cosa fa e dove va la ristorazione italiana, ai dieci cuochi premiati con targa la giornata dedicata a ristorazione e turismo dall’imponente titolo “L’arte della ristorazione protagonista dell’offerta turistica italiana” sarebbe stata una splendida occasione di confronto e insegnamento, che avrebbe compensato (almeno in parte) lo sbandierato e mancato Festival della ristorazione italiana, annunciato dal ministro al turismo Maria Vittoria Brambilla nel giugno scorso.
Invece una targa, una pacca sulla spalla e via ad Annie Féolde dell’Enoteca Pinchiorri, Livia Iaccarino del Don Alfonso 1890, Nadia e Antonio Santini del Pescatore (ad Antonio Santini doppia pacca sulla spalla per aver ritirato la targa in memoria di Franco Colombani del Sole di Maleo), Renata ed Ezio Santin dell’Antica Osteria del Ponte, Carlo Cracco dell’omonimo ristorante, Massimo Bottura dell’Osteria Francescana, Paolo Lopriore de Il Canto, Massimiliano Alajmo delle Calandre e Gualtiero Marchesi. Al maestro è andato un premio speciale: la targa “non d’argento, ma dorata” (sic), secondo le fedeli parole dello speaker della giornata.
Questa è la cronaca della parte conclusiva della giornata mondiale del turismo che si è svolta ieri al 31° piano del Pirellone di Giò Ponti. Ma, per fortuna, la politica (quella autocelebrativa) non è più di moda.
Infatti, nonostante la firma congiunta di un protocollo che sancisce “l’introduzione di regole di comportamento per la Ristorazione ai fini della valorizzazione turistica” tra il ministro Brambilla e il presidente FIPE Lino Stoppani tra flash e telecamere, quest’ultimo, nel successivo intervento dal palco, non ha mancato di mettere in evidenza le difficoltà congiunturali e strutturali del settore: “L’eccessivo liberismo che si è creato nel settore della ristorazione lo sta abbruttendo e banalizzando. Se negli altri stati europei servono dieci mesi e diverse verifiche prima di concedere una licenza di ristorazione, così importante anche per la salute stessa dei consumatori, da noi basta ormai poco per averla. – ha puntualizzato il presidente Fipe tra gli applausi dei colleghi – Così come è ora di mettere un freno all’abusivismo mascherato delle sagre. Oltre alle celebrazioni serve difendere il settore” ha concluso confidando nell’impegno dimostrato dal ministro Brambilla.
“L’Italia non è più il paese più bello del mondo!” Lo ha affermato Philippe Daverio nel suo intervento nel talk-show a cui hanno partecipato anche Gianluca Bisol, produttore di vini e fautore del progetto Venissa, Paolo Secondo, ristoratore italiano a New York, e l’astronauta Paolo Nespoli.
“Il paese, che 100 anni fa era la prima meta turistica al mondo per gli stranieri, è molto molto molto meno bello. Si prova la sensazione antiestetica più forte al mondo. – ha proseguito il critico d’arte – Però è diventato il paese più buono del mondo, trasformando alimenti poveri in formidabili piatti che i cuochi italiani sanno progettare. Hanno capito cos’è la creatività, non per difenderne solo la tradizione ma capendo cosa vuol dire inventare.”
Daverio ha concluso il suo intervento invocando il valore “di un turismo fatto da chi sta dentro”, dagli italiani che conoscono e capiscono il cibo perché rappresenta il linguaggio comune.
Tra i fattori che affermano il ruolo primario del turismo, il ministro Brambilla ne ha elencati tre: l’attività produttiva con un segno più; il fatto che siamo il paese più bello del mondo; il grande lavoro svolto dal ministero del Turismo  “voluto e istituito dal presidente del consiglio”, che assolve al compito di portare a sistema il settore.
"Ristorazione è turismo. Innalzare la qualità dei servizi di ristorazione significa dunque innalzare la qualità della nostra offerta turistica” ha affermato il ministro al momento della firma del protocollo con FIPE.
Si tratta di semplici regole che gli operatori potranno adottare segnalando l'avvenuta adesione con un marchio in vetrina: dalla valorizzazione del 'prodotto Italia' agli occhi dei turisti stranieri, all'informazione chiara ed obiettiva sui prezzi, alla disponibilità di menu almeno bilingui (italiano-inglese), alle informazioni sugli ingredienti, sulla preparazione, sulle tradizioni gastronomiche, fino ad iniziative che consentano ai clienti di esprimere la propria soddisfazione o le proprie critiche.
Chi rispetta queste regole potrà segnalarsi attraverso un marchio da esporre nel suo locale. Tutto ciò che sta scritto nel protocollo è buona cosa. Ma, per favore, andiamo oltre alla istituzione di un nuovo ennesimo marchio di qualità e alle targhe dorate.
Luigi Franchi
Pubblicato su www.cateringnews.it – Settembre 2011

Le buone erbe per la ristorazione

“I germogli di mais sono i più apprezzati” esordisce Stefano Gibellini, di Alimentaria, azienda di distribuzione spezzina specializzata nella selezione di prodotti di alta gamma.
“Quelli di bietola rossa fanno impazzire gli chef per il loro bellissimo colore, perfetto per la guarnizione”, gli fa eco Pietro Farnedi, dalle terre romagnole dove ha impiantato la sua azienda di germogli Vivo.
“Io utilizzo, quando è stagione, gli orapi, degli spinaci selvatici che sono meravigliosi per il ripieno dei nostri ravioli selvatici”, interviene Enzo Barnabei dalla sua Osteria degli Ulivi, che ha riaperto, dopo essere stato distrutto dal terremoto abruzzese, a Montorio al Vomano ai piedi del Gran Sasso, dove nascono più di erbe aromatiche ed officinali.
Il terzo millennio è un fiorire, nel senso letterale del termine, di utilizzo delle erbe in cucina, abitudine mai scomparsa ma che oggi assume un ruolo centrale nelle proposte culinarie di molti chef. Forse esprime un bisogno di benessere o forse un desiderio di portare alla luce, attraverso il cromatismo che le erbe e i fiori eduli conferiscono al piatto, l’aspetto artistico che una buona cucina porta con sé. Di certo sarebbe felice di tutto questo nuovo umanesimo delle erbe Vincenzo Corrado, l’autore del primo ricettario con le erbe stampato a Napoli nel 1781.
Un menu natura contemporaneo lo troviamo invece nelle proposte di Stefano Masanti, patron del ristorante Al Cantinone, a Madesimo, in Valtellina. “Viverci in mezzo alla natura porta naturalmente ad amarla. Siamo circondati da boschi e prati dove raccogliamo direttamente le erbe. Una passione – racconta lo chef – che è nata una decina d’anni fa, ascoltando i racconti delle signore più anziane di Madesimo. Grazie a loro ho scoperto l’Achillea moscata, che qui cresce spontanea, e le se proprietà che stimolano l’appetito”.Nel suo menu si trovano la trota di torrente con latte all' achillea e spuma di patate, il porcino con crema di gemme di abete e pistacchi, il risotto affumicato con erba silene dei pascoli.
“La tendenza all’utilizzo di erbe e germogli si è imposta rapidamente, in questi ultimi anni” racconta Pietro Farnedi, autore di una personalissima campagna di protesta e precisazione ai tempi del batterio e.coli che puntava a fare chiarezza e contrastare l’impatto mediatico che aveva creato una grave crisi anche in Italia, nonostante l’elevatissima qualità e sicurezza delle coltivazioni.
Farnedi, dopo una vita professionale trascorsa in giro per il mondo come dirigente di una multinazionale, decise che era venuto il momento di dare un suo personale contributo al mangiar sano: “Avevo notato questa abitudine al consumo di germogli in molte aree, soprattutto nel nord-Europa. Sei anni fa decisi di dedicarmi a quest’attività rigorosamente biologica. Oggi  produciamo più di venti referenze di germogli che crescono, a temperatura controllata, in un arco di tempo che va dai tre ai sette giorni, per poi prendere immediatamente la strada della ristorazione. C’è ancora una predominanza, da parte degli chef, a valorizzare l’aspetto cromatico e la sapidità dei germogli, più che quello salutistico, ma è già un grande passo avanti. Soprattutto quando resto affascinato dalla capacità di molti cuochi a tirar fuori sapori da germogli, come appunto la bietola rossa, che in origine sono sgradevoli; la perfetta dosatura ne esalta invece il profumo di sottobosco”. Germogli che, va puntualizzato, sono interamente prodotti e certificati in Italia.
Ma produrre erbe per la ristorazione significa anche generare innovazione come quella dell’olandese Koppert Cress che, per la gamma di referenze, ha scelto un nome intrigante ed esemplificativo: Architecture Aromatique.
“L’azienda coltiva i micro-ortaggi che vengono fatti crescere su un letto di fibre naturali, in completa e igienica assenza di terriccio e in regime biologico. Dalle serre arriva direttamente al ristorante, in ogni parte d’Europa, con consegne settimanali. Per l’Italia spediamo, con i mezzi che trasportano ortofrutta, crca 40.000 cassettine a settimana” spiega Enrico Zallot, anche lui una vita da manager in una multinazionale e poi l’amore per la coltivazione, responsabile commerciale per l’Italia.
Le piantine sono pensate per arricchire i sapori del piatto, crearne di nuovi e, perché no, far uscire la componente ludica del cibo invogliando i commensali ad individuarne i sapori come l’elettrico sechuan button o l’oyster leaves.
“Un mondo affascinante, quello delle erbe, che ci impone di adeguare anche il nostro lavoro, garantendo efficienza e rapidità di consegne” puntualizza Stefano Gibellini di Alimentaria che, in questa gara a chi conosce più erbe, vuole avere l’ultima parola con una saggia riflessione: “Si mangia molto bene anche con la vista”. Che l’arte vinca? Più probabilmente va d’accordo con una cucina che fa bene.

Luigi Franchi

Pubblicato su Catering, rivista della ristorazione  e dei consumi fuori casa – Settembre 2011

Doc Sicilia, maggiore qualità e immagine internazionale


“La Doc Sicilia ci darà l’opportunità di valorizzare la produzione siciliana sotto diversi punti di vista; la qualità sarà maggiore, basti pensare per esempio che per fregiarsi della Doc i vini dovranno essere ottenuti da rese per ettaro inferiori rispetto a quanto avveniva con la Igt Sicilia; il consumatore sarà ancora più tutelato in quanto con l’entrata a pieno regime delle DOP, i controlli sui vini saranno raddoppiati e avverranno prima e dopo l’imbottigliamento; poter puntare tutti sul brand Sicilia ci permetterà di essere più facilmente riconoscibili e quindi appetibili agli occhi del consumatore straniero. Non da ultimo, la Doc Sicilia offre il vantaggio di poter accedere con più facilità ai fondi che l’Unione Europea mette a disposizione per la promozione attraverso la OCM Vino. L’importante è che i soldi si spendano bene”, è il commento di Antonio Rallo, della prestigiosa azienda Donnafugata, che inizia il suo mandato di presidente di Assovini Sicilia in concomitanza con l’approvazione del nuovo disciplinare che racchiude, dopo un lungo iter, i vini dell’isola sotto un’unica insegna: Doc Sicilia.
Nella nuova denominazione vengono incluse nove tipologie, tra cui i conosciuti Insolia, Cataratto, Nero d’Avola, Nerello Mascalese, Frappato e Grillo, a cui vengono aggiunte le versioni Passito, Vendemmia tardiva, Spumante e Liquoroso. Le uve destinate alla produzione dei vini a denominazione di origine controllata "Sicìlia" devono provenire da vigneti coltivati nel territorio della Regione Sicilia.
“Abbiamo manifestato il nostro interesse all’iniziativa mirata ad ottenere il riconoscimento della Doc Sicilia, ritenendola importante al fine della rivalutazione della storicità del vino e della vocazione vitivinicola territoriale della nostra isola. – sostiene Carmelo Bonetta, dell’azienda Baglio del Cristo di Campobello, che quest’anno ha ottenuto un notevole numero di riconoscimenti - I benefici che si potrebbero trarre sono tanti, a cominciare dall’immediata comunicazione e riconoscibilità, da parte dei mercati internazionali, dei nostri vini, rafforzando il positivo momento che essi stanno vivendo. Riteniamo, però, che la  Doc Sicilia poteva raggiungere più facilmente questi risultati se non fosse stata data la possibilità di imbottigliare anche fuori dalla Sicilia. Tuttavia noi ci sentiamo impegnati a scommettere sulle positive sinergie che la stessa può generare”.
Effettivamente il disciplinare prevede che si possa imbottigliare anche fuori dall’isola, pur in presenza di limitazioni. Ma la soddisfazione resta alta tra gli imprenditori come conferma Diego Cusumano dell’omonima cantina: “Abbiamo fatto un grande passo avanti. La parola Sicilia è una delle più conosciute al mondo e riveste uno straordinario valore nell’immaginario. Non ultimo è una risposta a quello che il mercato richiede, ovvero chiarezza e semplificazione”.
Attorno al risultato l’approccio è razionale da parte dei produttori, con una serie di riflessioni che esprimono la necessità di mettere al centro la qualità, prima ancora che il nome.
“Parto dalla premessa che a mio avviso la Doc debba essere legata a doppio filo con il concetto di terroir che è la complessa interazione fra condizioni climatiche, tipo di terreno ecc., che deve essere alla base delle diversità e dell'originalità dei vini prodotti in un territorio e quindi, riunire tutto sotto un cappello Doc Sicilia mi sembra culturalmente sbagliato. – afferma Andrea Cabib, direttore commerciale dell’azienda Feudi del Pisciotto - Tuttavia se un'unica Doc Sicilia contribuirà a diffondere il nome Sicilia in giro per il mondo, rafforzando l'immagine delle singole denominazioni locali, allora potrà essere un successo, e se questa poi potrà servire per proteggere i nostri vini e le loro tipicità....ben venga!”
"Sinceramente credo che la Sicilia, anziché riproporre qualcosa che già esiste, avrebbe dovuto essere la prima regione a creare qualcosa di finalmente innovativo confermando così  la sua tradizionale vocazione verso tutto ciò che è avanguardia. In ogni caso la Sicilia è una regione grande e ricca di peculiarità che caratterizzano zone molto diverse tra loro e assolutamente uniche, lavorare su una DOC Sicilia secondo noi significa in qualche modo appiattire un territorio che invece andrebbe valorizzato nelle sue singole parti. Credo sarebbe stato al limite  più interessante creare delle DOC specifiche per i vari territori, come quella dell'Etna, per dare maggior valore alle diversità. In sintesi non penso quindi che il vino siciliano ricaverà benefici particolari da questa operazione", è l’opinione di Filippo Cesarini Sforza - Direttore Generale Duca di Salaparuta. Dibattito che rivela una complessità di analisi che il presidente di Assovini, Antonio Rallo, prova a riassumere con un obiettivo: “Tra le prime iniziative c’è quella di accompagnare gli associati verso l’adesione di questo nuovo quadro normativo e di collaborare con tutti gli altri soggetti della scena produttiva per la costituzione di un Consorzio che gestisca la Doc Sicilia”.
Luigi Franchi
Pubblicato su Catering, rivista della ristorazione  e dei consumi fuori casa – Settembre 2011

Nei ristoranti va in scena la società


La parola d’ordine è “setting affascinanti e suggestivi”, coniata da Monica Fabris, presidente dell’Istituto di ricerca Episteme, che ha svolto un’indagine sui nuovi modelli di consumo del mangiare fuori casa. Dalla ricerca emerge “la domanda di esperienza e unicità che si traduce in nuovi format e nuovi servizi (dallo street food al locale monotematico, dall’offerta dei grandi ristoranti per il mezzogiorno alla contaminazione dei format) capaci di essere vicini ai consumatori e di rispondere alle mutevoli esigenze del mercato del fuori casa”.
Tra gli chef che meglio interpretano questa filosofia c’è Fabio Baldassarre, dell’Unico Restaurant che ha aperto i battenti da pochi mesi a Milano al ventesimo piano del World Join Center. Senza timore di smentita il suo è il ristorante più alto d’Italia, dove il setting è decisamente affascinante: vetrate che mostrano tutta la metropoli, un tavolo ondeggiante con i colori dell’oro attorno a cui si socializza inevitabilmente, una cucina a vista che ospita il tavolo dello chef: ovvero “uno spazio dove voglio far vivere ai clienti e agli amici le stesse emozioni che proviamo noi in cucina durante la creazione del piatto”, racconta Fabio arrivato a Milano dopo diverse esperienze, l’ultima a Roma.
“Qui è tutto più veloce e più esigente e questo per me rappresenta uno stimolo costante. Il locale è nato su un progetto preciso, preso dalle fondamenta, lavorando insieme all’architetto Donata Nicetta per i minimi dettagli dell’arredo, come il tavolo dorato, che vuol rappresentare una brillante onda”. Non a caso lo ha realizzato un artigiano di Torino, specializzato in scocche per le barche.
Ma oltre alla suggestione degli ambienti, Fabio tiene in continua evoluzione le proposte del suo ristorante proprio per rispondere alla domanda di esperienze uniche che arriva dai foodies che hanno, secondo Marina Fabris, “elevato la gourmetizzazione della società”.
“Dall’autunno inizio dei corsi di cucina al ventesimo piano del WIC, - spiega Fabio- e da settembre, ogni domenica, propongo il brunch, ma con un paio di particolarità: la prima è che gli ospiti entrano in cucina a servirsi, stando a contatto diretto con me e i miei sous-chef che cuciniamo al momento; ogni domenica cambiamo menu, introducendo piatti tipici delle diverse regioni italiane, di altre cucine etniche e in base alla stagionalità; infine, giù nella piazza del grattacielo, allestiremo uno spazio dove i bambini possono mangiare piatti dedicati e giocare con gli animatori”.
Un precursore dei format
Se parliamo di setting affascinanti e di unicità non si può fare a meno di ascoltare l’opinione di chi li crea da 30 anni, allestendo oltre 5000 locali nel mondo, non ultimo Eataly a New York di cui Franco Costa, presidente del gruppo, va particolarmente orgoglioso.
“Sono tredici anni che disegniamo locali multifunzionali, che al mattino sono panetteria, poi caffè e aperitivo e, a sera, diventano ristoranti. È un piacere scoprire che adesso è una tendenza, ma per noi progettare e allestire locali multifunzione, che ad esempio al mattino sono panetteria, poi ristorante e, nel pomeriggio sala da the e cocktail-bar, è un mestiere vecchio di una quindicina d’anni. Il primo fu la Suprema, a La Spezia, ricavato in una storica casa d’appuntamenti per gli ufficiali della marina”.
Al mattino entri nel forno, traboccante di prodotti tutti realizzati nel laboratorio retrostante, dal pane alle mille varietà di focaccia, alle brioches, alle torte di verdura, ai dolci, prodotti serviti anche nell’adiacente bar – caffetteria, cui si accede da una semplice apertura secondo una perfetta continuità di ambienti. Intorno alle 12,30, La Suprema si trasforma in ristorante: il banco del pane arretra su rotelle per nascondersi dietro una parete scorrevole di vetro composta da più ante che si muovono su un’unica rotaia, mentre la zona vendita si riempie di tavolini.
Se al pomeriggio, la gente cerca ancora il panificio, e proprio non lo trova, completamente incredula e stupita, significa che la trasformazione è assolutamente riuscita. E questo effetto dura da dodici anni” racconta Franco Costa, che prosegue: “Conosciamo bene il mondo dei pubblici esercizi. Per noi il lavoro più grosso è svuotare le moltissime idee con cui arrivano nuovi clienti carichi di entusiasmo. Sappiamo cosa può funzionare e cosa no, quali problemi comporta una nuova struttura”.
Ma cosa fa tendenza? “Una grande voglia di tornare al vero, dove la pietra è pietra e il legno è legno. C’è grande attenzione al riciclo, noi stessi recuperiamo e riportiamo a nuova funzionalità le tavole dei cantieri. Ma ciò che fa veramente il successo di un locale rimane il sorriso e il servizio”.
Più e più idee
Se c’è voglia di vero esiste un luogo dove lo si può toccare con mano: a Lecce, dove Maurizio Guagnano, libraio di professione, ha fatto crescere attorno alla libreria Liberrima un ristorante, un’enoteca, un caffè e un cesto letterario. Quest’ultimo, nato da un’intuizione di una collaboratrice che riempì un grosso vaso trasparente di Ikea di libri e prodotti tipici leccesi.
“Adesso quel vaso è diventato il cesto letterario, una confezione che spediamo in tutto il mondo, con libri e cibi, ovvero la filosofia del luogo. – spiega Guagnano – Io, ovviamente, non mi considero un ristoratore ma ho sentito il bisogno, e anche la necessità, visti i problemi delle librerie indipendenti, di diversificare l’offerta. La libreria è in un locale a volte, dove ognuna delle quattro ospita uno spazio diverso, tra cui appunto il ristorante in cui proponiamo piatti locali personalizzati”. L’effetto è indubbiamente di grande suggestione e i risultati più che positivi.
Al pari di Slurp, a Torino, un locale creato da tre giovani soci, Alberto e Matteo Beraudo ed Enrico Galleano, aperto agli inizi del 2010.
“ Il progetto si avvale delle idee di mio padre, Vittorio Beraudo designer e progettista, che ha curato insieme a mio fratello tutta la realizzazione di SLURP!. Parte degli arredi infatti sono nostre produzioni,e come tutto il resto del locale sono acquistabili come da menu del design”, racconta Alberto Beraudo mentre descrive gli spazi.
“L'idea principale è quella di offrire una ristorazione tradizionale, fatta di piatti classici piemontesi e alcuni interpretazioni come lo spada slurp! del nostro chef Domenico D'Agostino. – prosegue Beraudo - SLURP! si rivolge ad una clientela ‘onesta e familiare’, che vai dai 25 anni ai nostri nonni. Siamo attenti alle famiglie, con menu per bambini e attività come la colorazione delle nostre tovagliette per le copertine dei nostri menu. Da SLURP! si può mangiare al tavolone dell'amicizia (il tavolo sociale), al tavolo dello chef. A pranzo la nostra carta sempre disponibile è accompagnata dal piatto SLURP! (primo + secondo + contorno che cambia ogni giorno), le insalate e i piatti freddi rapidi da servire subito. Questo dal lunedì al venerdì, al sabato e alla domenica invece proponiamo sempre a pranzo il classico brunch americano alla carta”.
A Brescia si è invece spostato lo stellato L’Artigliere, dello chef Davide Botta che dalla sede di Gusago, si è portato appresso il tavolo centrale: “È un tavolo di grande valore affettivo, sul quale gli anziani del paese ci giocavano a carte e l’artigliere, il proprietario del locale, negli anni del dopoguerra ci preparava gli ingredienti per il tipico spiedo bresciano”.
Davide ha riaperto il suo ristorante all’interno di un complesso, il Santellone, in cui trovano spazio un resort, una spa ricavata in ambienti di origine romana e il ‘Lab quarantadue’ di Jessica Altieri, un metodo brevettato per coniugare in un’unica formula alimentazione equlibrata, movimento e percorsi estetici.
“Con l’intera struttura collaboriamo attivamente, facendo anche menu personalizzati per i clienti che seguono le attività benessere. Soprattutto la vicinanza con l’hotel è stata molto positiva perché ci ha consentito di ampliare la clientela, pur difendendo la scelta di pochi posti in sala”, precisa Davide. Il suo menu riporta i fornitori, dando un chiaro segnale di sicurezza nella qualità.
Luigi Franchi
Pubblicato su Catering, rivista della ristorazione  e dei consumi fuori casa – Settembre 2011


La socialità è la vera anima della ristorazione a chilometro zero



Giovanni Ferrari da Martignacco di mestiere fa il contadino ortolano, vive e lavora a pochi chilometri da Godia dove vive e lavora Emanuele Scarello, di professione chef e, per passione, presidente della sezione italiana dei Jeunes Restaurateurs d’Europe. A dividerli la città di Udine che entrambi attraversano volentieri per incontrarsi e, ogni volta, è una sorpresa di odori e sapori: quelli delle verdure che nascono nei campi di Giovanni, secondo i tempi e i desideri della natura, che vengono esaltate nei piatti di Emanuele, sempre in base alla stagionalità. A beneficiare di questo incontro i clienti della Trattoria Agli Amici, diventati clienti dell’ortolano.
Questo è uno dei risultati tangibili della realizzazione di un accordo sottoscritto un anno fa tra i giovani ristoratori del gruppo Jre e i giovani produttori agricoli della Cia (Confederazione Italiana Agricoltori) che prevede l’avvio degli orti di prossimità, ovvero uno degli strumenti per la ristorazione a km.zero.
“L’incontro tra le due associazioni è stato naturale e basato sul fatto che tra giovani ci si intende. – racconta il presidente dell’JRE Emanuele Scarello – Un incontro importante perché consente ai giovani imprenditori agricoli di continuare a svolgere l’attività senza essere soffocati dal prezzo e dalle regole dei grandi gruppi. Mentre noi riscopriamo il valore dei tempi e dei sapori della natura, che non fa sconti. Impari cosa vuol dire per davvero la parola stagionalità, adeguando la carta e la creatività a questo o fai dell’altro”.
Il chilometro zero risveglia i sensi, vien da dire dopo l’esperienza vissuta in alcuni ristoranti che lo praticano davvero. E restituisce dignità a prodotti che diversamente non esisterebbero più.
“Qui da noi c’è una patata particolare, di Godia, il cui seme rischiava di scomparire se non l’avessi riscoperta grazie al mio ortolano. Ma altrettanto, dopo il primo anno di sperimentazione del progetto, Giovanni Ferrari, e con lui molti altri in Italia, riescono a produrre in base al mercato. Nei mesi invernali, in Friuli, i campi sono ghiacciati e ciò che rimane sono verze e alcune radici. Lo scorso inverno mi sono trovato a fare un piatto di maialino nero con nove tipi di radici che ha spopolato, ma le radici erano poche. Quest’anno Giovanni ne ha aumentato la produzione”.
Ma il chilometro zero è anche socialità, conoscere e interagire con la comunità in cui hai il locale, come nel caso di Piero D’Agostino, giovane patron e chef del Ristorante la Capinera, sul mare di Taormina, aderente al circuito Jre: “Quando, sette anni fa, sono tornato nella mia terra per aprire la Capinera, avevo ben chiaro cosa c’era attorno a me, nel breve raggio di 500 metri: orti e mare, contadini e pescatori. Sono stati i primi con cui ho stretto rapporti di amicizia e collaborazione. Da loro prendo i prodotti che diventano cibo per gli ospiti, perché da queste produzioni assolutamente naturali riesco ad estrarre sapori che nessun altro prodotto riesce a darmi. E il cliente apprezza, riconosce, impara fin dal benvenuto con cui accolgo gli ospiti in questa stagione: una semplice zuppetta di pomodorini datterini con spuma di mozzarella che sprigiona odori e sapori che fanno sognare”.
A volte le persone storcono il naso di fronte alla naturalità di prodotti, in particolare frutta e verdura, non perfetti alla vista: “Non è che tutti gli uomini o le donne sono bellissimi, ma interessanti sì!” lo chef D’Agostino liquida in fretta l’argomento, dando l’implicita risposta che avrebbe dato la natura stessa.
Rispettare la vicinanza dei fornitori significa anche fare un certosino lavoro di ricerca che può durare anni, come ha fatto Michele Valotti della Trattoria La Madia di Brione, a 650 metri di altezza da cui si domina la Franciacorta, che dalle pagine del suo sito avverte: “Provate a dimenticare tutte le vostre certezze. Provate a non catalogare per tipologie i prodotti”.
Nella sua trattoria il menu riporta tutti i nomi e gli indirizzi dei fornitori di ogni singolo prodotto.
“Ho impiegato almeno dieci anni a selezionare i singoli fornitori e adesso posso dare soddisfazione ai clienti che vogliono sapere da dove provengono i salumi, i formaggi, le verdure ecc… Scrivendolo nel menu il cliente può anche controllare di persona ciò che racconto e propongo. – spiega Michele Valotti – Inoltre il menu cambia ogni giorno in base all’offerta della terra, del lago, degli animali. Ormai è il produttore stesso che suggerisce quello che ha quel giorno”
C’è anche chi il chilometro zero se lo fa direttamente in casa, come Massimo Spigaroli dell’Antica Corte Pallavicina, un ristorante e relais che si affaccia direttamente sul fiume Po, a Polesine Parmense.
In vent’anni Spigaroli non ha fatto altro che ricercare, riprodurre, reimpiantare tutto ma proprio tutto quello che la fertile terra del Po offriva. L’intera filiera del suino da cui ricava le carni per le pietanze e i salumi per le merende; un orto posto all’ingresso del castello-relais in cui coltiva il meglio delle verdure e delle spezie; la stagionatura del parmigiano-reggiano, ma anche un allevamento in cui convivono all’aria aperta le vacche di razza bianca, le oche, le anatre e persino i fagiani; la produzione dei liquori ricavati dalle mele cotogne, dalle noci, dai prugnoli delle sue tenute. Infine, non contento, ha reimpiantato le vigne di Fortana che, fino a pochi anni fa, connotavano il paesaggio della Bassa Parmense, ed ora, nel ristorante i vini della sua cantina aprono una splendida carta, unica concessione all’internazionalità. Per il resto è pura autarchia gastronomica.

Luigi Franchi
Pubblicato su Catering, rivista della ristorazione  e dei consumi fuori casa – Settembre 2011

www.agliamici.it
www.ristorantelacapinera.com
www.trattorialamadia.com
www.acpallavicina.com

L’idea di dieta mediterranea secondo Angelo Sabatelli



Angelo Sabatelli, chef e patron di Masseria Spina a Monopoli, nel cuore del Mediterraneo ci è nato e ci vive. Crescere con i profumi e i ritmi della sua terra lo hanno spinto ad intraprendere la professione di cuoco e, dopo diverse esperienze, è tornato nella sua terra e ha preso in mano il ristorante dove esordì come cuoco, ma questa volta in qualità di gestore. Alla Masseria Spina la dieta mediterranea è di casa ma, come avverte Angelo Sabatelli: “Il concetto è cambiato. Gli ingredienti sono gli stessi ma c’è più cura sulla produzione, sulle tecniche di trasformazione che, nel mio caso, significa basse cotture per esaltare l’essenza del prodotto”.
Abbiamo chiesto ad Angelo un menu che lui consiglierebbe nel suo locale a chi volesse ripercorrere la dieta mediterranea e questo è il risultato:
-Crema di fave bianche con cicorie soffritte e ostriche marinate crude
-Minestrone tiepido con verdure estive, gamberi rossi di S. Spirito crudi e croissant Primo sale
-Filetto di ombrina con salsa di fiori di zucca e vongole veraci
-Bocconotto di mandorle farcito di pere, salsa di ciliegie Ferrovia
Che dire?!

Luigi Franchi

Pubblicato su Catering, rivista della ristorazione  e dei consumi fuori casa – Luglio 2011

I Bartolini





L’occasione mi è offerta dall’evento Un mare di sapori che l’Assessorato all’agricoltura della Regione Emilia-Romagna organizza ogni anno sulla riviera romagnola per la promozione dei prodotti tipici della sua fertilissima terra; a Cesenatico, in una bella sera d’estate sul molo, si presentava la guida dei vini dell’Emilia-Romagna, con degustazione e abbinamenti a prosciutto crudo, salumi piacentini, parmigiano-reggiano e molte altre magnifiche specialità.
Poco prima della manifestazione, passeggiando lungo il porto-canale progettato da Leonardo Da Vinci, mi imbatto in un cartello che recita “per favore non chiedeteci spaghetti allo scoglio perché a Cesenatico gli scogli non ci sono”.
Il cartello è appeso all’esterno dell’Osteria del Gran Fritto, le cui pareti aumentano la mia curiosità: due lunghissimi dipinti di marine adriatiche accompagnano all’interno in una sorta di ipnotica meraviglia. Otto metri di lunghezza per circa sessanta centimetri di altezza di mari blu, nuvole bianchissime, linee di sabbia interrotte da capanni coloratissimi e una firma, quella di Tinin Mantegazza.
Un nome che mi riporta a quando, giovane padre agli inizi degli anni ‘90, non mi perdevo una puntata televisiva dell’ Albero Azzurro insieme a mio figlio: lui, regista, autore, pittore, organizzatore teatrale, storico, giornalista, era stato l’inventore del pupazzo Dodò.
Tinin mi porta un quadro ogni vigilia di Natale e, in cambio, io gli organizzo una gran cena con tutti i nostri amici mangiari.” Comincia così la conversazione con Stefano Bartolini che mi accompagna nella seconda sala dell’osteria dove sono esposte enormi bellissime fotografie in bianco e nero della Cesenatico anni ’50, tra cui quella di suo padre pescatore che farebbe invidia ad un attore hollywoodiano tanto è intenso il suo viso.
Era un’intera famiglia di pescatori quella dei Bartolini, da generazioni. Poi mio padre Marcello decise di diventare oste per passione, seguendo le orme di mio zio Titon, negli anni ’60 vero mito gastronomico di Cesenatico.” Stefano Bartolini è la rappresentazione dello stile romagnolo, uno di quelli che ha reso famosa nel mondo questa riviera italiana: allegro, sempre, capace di prendersi in giro, verace nei modi e nelle espressioni gergali oltreché nei desideri.
Ho cominciato nel 1985, rilevando un locale che si chiamava La buca d’Amalfi… a Cesenatico!! Ho tolto d’Amalfi ed è nata La Buca, dove altro non ho fatto che proporre i sapori, gli odori, i pesci del nostro mare. Poi, nel 1999, l’inizio dell’avventura dell’Osteria del Gran Fritto, nata per caso dall’atmosfera di grande convivialità di una cena a casa mia con il pesce pescato da Andrea Tosi. Voglio riprodurre questa condizione di assoluto piacere, mi sono detto.”
Da quel momento un crescendo di successi, di idee, di innovazione sempre e comunque coniugata alle origini, alla bellezza del porto-canale su cui si affacciano le verande dei due locali. Stefano mi porta con sé, mentre va a scegliere il pescato della sera, al mercato sulla riva opposta del porto, lui in bicicletta e io a piedi affascinato dai colori delle case e delle vele che si riflettono nel canale. Il breve tragitto è un continuo trillare del cellulare a cui arrivano le prenotazioni, forse l’unico patron che prende le prenotazioni in bicicletta. Questa è vita!
Il pesce poi finirà nei due locali, in bella mostra nella grande vetrata della Buca, da cui il cliente può scegliere. L’idea della cucina a vista l’ha avuta Andrea, il figlio architetto che, il giorno dopo la laurea, ha detto a Stefano: “sono pronto a fare l’oste.
Il primo lavoro è stato proprio quello di separare i due locali, con target diversi di clientela e di proposte. Un format che i Bartolini hanno replicato a Milano Marittima dove, in un grande locale in riva al mare, hanno aperto un’altra Osteria del Gran Fritto a pianoterra e la Terrazza Bartolini al piano superiore.
Un luogo che definir emozionante è dir poco: un’enorme vasca di marmo costantemente ghiacciata troneggia al centro della sala, ogni giorno curata personalmente da Luigi Quadrelli: “un amico e uno dei pochi veri pescivendoli rimasti”, lo descrive Stefano.
In sala, a coordinare il tutto, c’è Andrea, l’architetto-oste: “Non potevo fare altro. Mio nonno Marcello mi ha tirato su a sardoncini, moletti e poverazze (le vongole dell’Adriatico ndr). Nel ristorante sono cresciuto, facevo i compiti, mangiavo a mezzogiorno e sera,  giocavo. Ho visto passare migliaia di persone. Non sarei riuscito a farne a meno.
Mai decisione fu più apprezzata dai clienti, dagli amici e da suo padre Stefano che mi mostra con malcelato orgoglio tutto quello che Andrea ha portato di buono e di nuovo nei loro quattro locali, “tranne una cosa”, mi dice mentre apre la porta del bagno al Ristorante La Buca: ad altezza occhi Stefano ha fatto installare un monitor su cui passano a ripetizione spezzoni di cartoni animati a tema gastronomico. Piccolo tocco di ironia romagnola.
Come quella con cui mi descrive il suo prossimo desiderio: “L’ho già individuato, è un edificio vicino al molo. Sarà lì che andrò, una volta in pensione, ad aprire un locale con due dei miei storici collaboratori: serviremo solo bicchieri di vino con poverazze, piadina e poco altro. Il nome c’è già: i tre dinosauri.
A cena, la sera dopo il nostro occasionale incontro, non avevo che l’imbarazzo della scelta ed è caduta sull’Osteria del Gran Fritto, sulla voglia di vivere davvero e fino in fondo il piacere di questo mare e di questa terra. Un menu ricchissimo di tutte le specialità romagnole, tranne “gli spaghetti allo scoglio”. Indimenticabile il risotto, che Stefano ha definito “di una volta”: zanchette, paganelli, saraghine e altri pesci piccoli dell’Adriatico restano a cuocere per ore in acqua e conserva di pomodoro, in cui poi viene gettato il riso.
Il risultato è un risotto che sa di mare in maniera prepotente, ma senza più un pezzetto di pesce.

Luigi Franchi

Pubblicato su Food&Beverage- Ottobre 2010
www.stefanobartolini.com

Il Prosciutto di Sauris, dai mille metri in sù





Dai mille metri in giù non si può fare! Questo potrebbe essere il principale elemento identitario del prosciutto affumicato di Sauris, a cui da quest’anno è stata attribuita l’IGP (Indicazione Geografica Protetta). Ma la storia e le caratteristiche di questo salume sono altre ancora, a cominciare proprio dalle origini di questo particolare borgo posto in alta Carnia, a 1400 metri sul livello del mare che gli conferiscono il primato di paese più alto del Friuli Venezia Giulia.
Sauris fu fondata attorno al 1200 da due famiglie di cacciatori provenienti dalla Carinzia e, per secoli, ha subito un isolamento che ha determinato specifiche caratteristiche ancora evidenti nelle architetture e nel dialetto saurano, un idioma che conserva vocaboli e ritmo del tedesco parlato nel XIII secolo, praticato unicamente da questa piccola comunità. Oggi Sauris è inserita tra le venti località aderenti al circuito delle perle alpine, coordinato dal Consorzio Turistico Alpine Pearls, e si raggiunge abbastanza agevolmente da quando, negli anni ’30, fu costruita la prima strada rotabile. Ma prima d’allora, in inverno, era praticamente impossibile raggiungere il paese, isolato da copiose nevicate che tuttora, sulle cime delle montagne dove ci sono le malghe, raggiungono diversi metri d’altezza.
“Quando scenderai a Sauris facci caso: ogni casa porta una croce scavata nel legno sotto il tetto. Era il luogo in cui riposavano i morti durante l’inverno, quando la neve seppelliva tutto, anche il cimitero e le case.” Mi racconta Giordano mentre mi offre una ciotola di tiepida ricotta appena fatta nella sua malga di Passo Pura, duecento metri in altezza sopra Sauris.
Forse è stato proprio l’isolamento che ha spinto gli abitanti di Sauris a sviluppare prodotti e alimenti necessari per la sopravvivenza: da qui le tessiture, mestiere un tempo riservato agli uomini, e la tecnica dell’affumicatura per le carni, in primis il prosciutto crudo.
Questo pregiato salume è al centro di una grande festa che, nei primi due weekend di luglio, occupa ogni angolo del paese e, grazie all’intraprendenza di Pietro Schneider (il cognome più diffuso della piccola comunità) nel lontano 1862, attualmente rappresenta una parte fondamentale dell’economia del territorio.
Basti pensare che nel salumificio Wolf lavorano 60 persone e che l’intera comunità non supera i 400 abitanti. Ma è meglio andare con ordine. Intanto cominciamo con il dire che Wolf è il soprannome con cui la famiglia di Pietro Schneider e i suoi antenati, al secolo Beppino e Licia Petris, sono conosciuti, a tal punto che hanno chiamato l’azienda in questo modo.
Il salumificio Wolf taglierà il traguardo ufficiale dei cinquant’anni nel 2012, ma le origini risalgono alla fama di norcino e ottimo produttore di prosciutti del nonno di Beppino, Pietro Schneider. E li faceva già allora con il procedimento dell’affumicatura gentile.
Da allora poco è cambiato nelle tecniche di produzione, tranne forse l’utilizzo del tipo di legname. Un tempo si usavano il pino e l’abete che conferivano un gusto molto forte e pronunciato al prosciutto, mentre adesso è il faggio il legno utilizzato nel processo di affumicatura, che infonde un sapore e un profumo più raffinato e delicato.
Per il resto il procedimento rimane quello tradizionale: selezione delle cosce fresche di suino nazionale, come da disciplinare, salatura tramite il massaggio fatto in più tempi e infine l’affumicatura.
I prosciutti vengono appesi in grandi sale dove penetra il “fumo gentile” di tre camini posti al pianterreno dello stabilimento, alimentati a mano dagli operai con il legno delle faggete che circondano Sauris. Successivamente entra in gioco l’altitudine, quei famosi mille metri sotto i quali non è più prosciutto di Sauris.
Alla Wolf hanno realizzato enormi saloni dove i prosciutti stagionano lentamente grazie alla memoria storica degli addetti che sanno quando aprire e chiudere le finestrelle, in base a precisi momenti del giorno e delle stagioni, per garantire ai prosciutti quell’aria pulita che si respira a 1400 metri d’altitudine, celebrata anche dal grande Gino Veronelli che ebbe a scrivere: “A Sauris lasciami sostare, per il verde dei boschi e dei prati, per le case lignee, le pale anche lignee delle due chiese, i canti in carnico, friulano e tedesco del coro, i prosciutti affumicati di Licia e Beppino Petris.”
Con infinita modestia mi sento di aggiungere, dopo il mio viaggio magico in quelle terre, anche per la birra integrale Zahre, per i formaggi di malga di Giordano De Monte, per la squisita ospitalità dell’Hotel Morgenleit dove sanno presentare al meglio il prosciutto affumicato di Sauris Wolf.
Restano a stagionare almeno dodici mesi i 40.000 prosciutti affumicati, ma uno ci resta di più. L’aria di Sauris la respira per almeno sedici mesi perché viene fatto con cosce più pesanti, quelle che hanno una marezzatura di grasso più particolare: a questo prosciutto i Wolf hanno dato il nome di Nonno Bepi, un omaggio a Beppino da parte dei quattro figli che lo affiancano in azienda, garantendo continuità a questa straordinaria avventura nata un anno dopo l’Unità d’Italia.

Luigi Franchi

Pubblicato su Food&Beverage – Ottobre 2010

Mangiare mediterraneo

Forse si tratta di pura coincidenza ma i precursori della dieta mediterranea, studiata dall’americano Angel furono i medici che, a partire dal XI secolo diedero vita alla Scuola Medica Salernitana e al più antico orto botanico d’Europa dove vennero coltivate una grande quantità di erbe e piante per studiarne le proprietà terapeutiche.
Il territorio è lo stesso, quell’area della Campania crocevia di importanti scambi commerciali, di contaminazioni culturali, ma soprattutto dotata di un clima notoriamente salubre. Fu qui che si concentrarono gli studi di Ancel Keys, lo scienziato americano autore della ricerca "Seven Countries Study", basata sul confronto dei regimi alimentari di 12.000 persone, di età compresa tra 40 e 59 anni, sparse in sette Paesi del mondo (Finlandia, Giappone, Grecia, Italia, Olanda, Stati Uniti e Jugoslavia). I risultati dell'indagine, durata trent’anni e ultimata nel 1969, non lasciarono dubbi: la mortalità per cardiopatia ischemica (infarto) è molto più bassa presso le popolazioni mediterranee rispetto a Paesi dove la dieta è ricca di grassi saturi.
In Italia le ricerche si concentrano in una precisa area del Cilento, a Pioppi nel comune di Pollica che, negli anni scorsi si è fatto promotore dell’inserimento della Dieta mediterranea tra i Patrimoni orali e immateriali dell’Umanità, ottenuto il 16 novembre 2010. Ma in cosa consiste questa dieta e, rispetto allo studio di cinquant'anni fa, quali caratteristiche ha mantenuto e come si colloca in uno scenario di consumi che si è profondamente trasformato? Alcune significative risposte ce le fornisce il professor Giovanni Ballarini, presidente dell’Accademia Italiana della Cucina.
“La dieta di tipo mediterraneo o ‘mangiare mediterraneo’ che si era formato negli ultimi millenni, quale era stata vista e studiata da Ancel Keys e altri a metà del secolo passato, aveva un significato se inserita in uno stile di vita che comprendeva  una significativa attività fisica (otto ore giornaliere), ritmi alimentari (tre pasti giornalieri con una composizione ben definita) e soprattutto l'utilizzo di alimenti con precise attività extranutrizionali o nutraceutiche. Queste, in buona parte sono oggi ridotte o scomparse. Ad esempio le attività antiossidanti di un origano o di un rosmarino spontanei e soprattutto freschi, sono molto ridotti o non sono più presenti nei prodotti essiccati e negli ‘aromi di ...’. In modo analogo diverse sono le caratteristiche extranutrizionali o nutraceutiche di carni o latte ottenuto da animali al pascolo, da quelle di animali alimentati con granaglie come mais o soia). Se l'attuale applicazione di una dieta mediterranea (invenzione americana e diversa dal ‘mangiare mediterraneo’) ha portato e porta alcuni vantaggi per quanto riguarda alcune patologie (cardiovascolari ecc.) non ha impedito la diffusione della epidemia obesità – diabesità  e di patologie neurodegenerative o di ancora poco note tesaurismosi nervose (accumulo nel sistema nervoso di componenti anomale)”.
“Una vera dieta mediterranea – è la convinzione del professor Ballarini - ha significato soltanto se inserita in uno stile di vita mediterraneo. Da qui l'importanza dei saperi e sapori tradizionali”.
Dello stesso parere Claude Fischler, sociologo e direttore del centro Edgar Morin di Parigi che, durante il secondo International forum on Food & Nutrition che si è tenuto a Milano nei mesi scorsi, ha ribadito come “la dieta mediterranea non è solo un insieme di cose materiali che si mangiano ma è un modo di vivere, una filosofia e uno stile di vita. Del resto la vita è troppo breve per trascorrerla sempre a dieta. Meglio godersela mangiando cibi mediterranei come pasta, pane, frutta e verdura. Staremo meglio e più in forma. E allo stesso tempo anche più felici”.

Lo stress del pranzo fuoricasa
Ma come si può valorizzare questo stile di vita, in un Paese dove si mangia sempre più di corsa, fuoricasa e, nell’intervallo del pranzo, spesso in piedi nell’arco di dieci minuti? Sono profondamente cambiate le abitudini alimentari degli italiani, che dedicano sempre meno tempo alla cucina a scapito di altri impegni o passatempi, come rileva la fotografia tracciata dal Barilla Center for Food & Nutrition.
Secondo lo studio ammontano a 105 milioni i pasti che complessivamente ogni giorno consumano gli italiani. Di questi ben uno su quattro è consumato fuori casa e solo in due casi su tre in compagnia dei propri cari. È intorno alle tredici il picco dei pasti fuori casa, in pratica i due terzi, un segno evidente della difficoltà a rientrare a casa per il pranzo, specie quando si vive in una grande città. In pratica lo stress passa dal lavoro alla tavola, senza soluzione di continuità: abbondano i piatti consumati in piedi (il 14%) e in meno di 10 minuti (un caso su dieci). Ma i nutrizionisti avvertono: meglio prendersi una pausa e masticare lentamente un buon piatto di pasta al dente con un po’ di pomodoro fresco e un filo di olio extra vergine, qualche volta accompagnato dagli antiossidanti di un buon bicchiere di vino rosso.

I prodotti della dieta mediterranea
La dieta mediterranea prevede il consumo di pane, frutta, verdura, erbe aromatiche, cereali, olio di oliva, pesce e vino; alimenti che si trovano nel paniere dei “sapori e saperi tradizionali” di cui parla il presidente dell’Accademia Italiana della Cucina.
“L’olio extravergine d’oliva è forse l’ingrediente più funzionale al mangiare mediterraneo, per il suo apporto salutistico oltre che di gusto. – afferma Valerio Fassitelli, direttore commerciale di Costa d’Oro, azienda di Spoleto che produce olio extravergine d’oliva dal 1968 – Negli anni si è affinato il consumo di olio extravergine e la stessa ristorazione presta più attenzione alla qualità e al tavolo tende a proporre oli dalle chiare indicazioni in etichetta, che è del resto la filosofia per cui noi lavoriamo da  molto tempo”.
Non può esserci un olio extravergine di qualità se non è accompagnato da altrettanta qualità e ricerca negli altri ingredienti, come il pomodoro che, negli ultimi anni, è stato confinato al ruolo di commodity ma non per questo si riduce la qualità, soprattutto in termini di trasformazione, come spiega Dario Squeri, amministratore di Steriltom, azienda leader in Europa per la produzione di polpa di pomodoro per il canale ho.re.ca.: “Siamo stati i primi in Italia ad introdurre la tecnica di sterilizzazione per la polpa di pomodoro che mantiene inalterata la naturalità del pomodoro, garantendo la totale sicurezza microbiologica. Non a caso siamo in grado di gestire la tracciablità del nostro prodotto fino al seme. L’innovazione è la nuova linea di sughi pronti a base di polpa, ricettati di base per la ristorazione, in particolare la collettiva, che consentono rapidità di servizio ma altrettanta creatività per lo chef”.
Una delle possibili risposte verso un modello di consumo del cibo che, con l’alta qualità di servizio, potrebbe riappropriarsi dei ritmi del mangiare mediterraneo.
Luigi Franchi
Pubblicato su Catering, rivista della ristorazione  e dei consumi fuori casa – Luglio 2011

Massimo Bottura: senza il dubbio si smette di crescere

“A un certo punto della notte, furono risvegliati da mille, soffocanti rumori e parve loro che la valle cominciasse a gorgogliare, come se il suo fondo fosse costituito da un setaccio e un soffio impalpabile, salendo dalle viscere della terra, avesse preso a fare il solletico alle acque.” Sono parole tratte dal Ponte delle Maravegie, un romanzo di Gabriele Franceschi che parla dell’antico Po e descrive le saraghine, assurte a simbolo della filosofia di Massimo Bottura, da pochi mesi il cuoco migliore al mondo, come ha decretato l’Accademia Internazionale della Cucina a Parigi assegnando allo chef italiano il Grand Prix de l'Art de la Cuisine, il riconoscimento più prestigioso al mondo. L’ultimo italiano a cui venne assegnato fu Alfonso Iaccarino, nel 2000.
Dieci anni dopo, lo stesso tempo che è servito alla cucina italiana per affrontare una profonda evoluzione, mantenendo ben saldo il rapporto con la tradizione. Proprio quella tradizione che Massimo, in questa intervista, racconta con la metafora della saraghina.
Come si cambia?
“In continuazione, con le esperienze di tutti i giorni, con gli occhi e le orecchie che diventano come spugne per consentirci di imparare e diventare migliori. Io mi metto sempre, quotidianamente, in discussione: il dubbio tremendo, quello stesso che ha caratterizzato la vita di grandi persone, come Galileo Galilei, che rivendica l’autonomia degli ‘occhi della mente e della fronte’ mi accompagna sempre. Senza il dubbio si smette di crescere. Con esso si cambia, io cambio in meglio.”
Sapere di essere il migliore cuoco al mondo, dopo questi mesi, cosa significa per lei?
 “Fino all’annuncio ufficiale, non sapevo niente del premio che mi è stato assegnato. Ma quando ne ho letto le motivazioni mi ci sono pienamente riconosciuto: tradizione, scienza e arte. Non dimentico mai chi sono e da dove vengo, la mia terra, le persone che ho attorno, con cui sono cresciuto. Ma guardo a loro e al territorio senza spirito di nostalgia, ma proiettandoli al futuro. Lo stesso faccio con la mia cucina, attraverso le materie prime, tramite una tecnica umile per esaltarne i valori e i sapori. Mi piace raccontare la storia dell’anguilla e degli Estensi. L’impossibilità di mantenere le concessioni per la pesca, nel Cinquecento, li spinsero verso l’interno, verso questa città dove vendettero la cultura per costruire il palazzo ducale. Ma essi incontrarono la civiltà e la cultura contadina in questo viaggio. Ecco, nel mio piatto ho il sogno di farci stare dentro tutto questo.”
Massimo, è risaputo, è un grande appassionato di arte contemporanea e i suoi stessi piatti ne sono costantemente influenzati. Ma non è solo una visione gastronomica, è l’anima e la mente che sono in sintonia con alcuni grandi artisti del Novecento, come Kandiskji; una sintonia che li accomuna nel legame con la propria terra.
“L’arte contemporanea non è capita, come non lo era il mio croccantino di foie gras. Nel 2000 lo buttavo via, nessuno lo voleva. In quegli anni stavo pensando di chiudere.”
Invece Massimo è rimasto, affermando le sue idee, i suoi piatti, trasmettendo i valori alle persone che lavorano con lui. Una brigata di ragazze e ragazzi tra i 19 e i 30 anni, con cui Massimo si confronta ogni giorno: “I giovani sono il futuro, bisogna metterli in condizione di studiare, devono studiare il più a lungo possibile, non devono entrare subito in cucina, devono studiare. E all’alberghiera devono andarci ma per scelta, non per imposizione o ripiego o, peggio ancora, moda. Solo se si ama studiare si può crescere, capire, approfondire gli interessi e trasformarli in passione ed entusiasmo. Da me c’è una brigata di ragazzi e ragazze tra i 19 e i 30 anni. Me la sono costruita con la stessa regola: motivazione ed entusiasmo, e ogni riconoscimento che ricevo non è il mio, è di tutti noi. La brigata di sala è fondamentale, ad essa è affidato il nostro pensiero, sono loro che devono trasferirlo. È stato Alain Ducasse ad insegnarmi una regola fondamentale: le riunioni tra sala e cucina. Le facciamo regolarmente.”
Questo flusso di comunicazione mi porta ad una riflessione sul modo di raccontare il mondo dell’enogastronomia che, in Italia, riempie ormai ogni spazio. Non le sembra eccessivo?
“C’è anche qui una selezione naturale, chi sa scrivere e raccontare in maniera corretta cresce. I giornali hanno certo aiutato il nostro mondo, piano piano ci si accultura e quindi si migliora. Ora è necessario fare di più. Ora è importante che non ci sia confusione, che si distingua tra i vari livelli della ristorazione, che sia chiaro che l’alta ristorazione non è mai popolare. Altrimenti non si può spiegare e capire perché in ristoranti come il mio ci sono 20 persone per 30 coperti.”
Come sceglie i fornitori?
“I fornitori sono fondamentali, il buon rapporto con loro ti permette di avere il più fresco, la miglior materia prima possibile, sia che si tratti di un taglio di carne, o della carota di Giovanni della Lanterna di Diogene. O il parmigiano di Marchi o Panini. Il meglio del meglio, quello che ti fa recepire l’emozione al palato, il sogno.”
La sensazione è che le persone che scelgono un ristorante oggi siano più attente ed esigenti…
“Il cliente è cresciuto moltissimo negli ultimi anni, analizza, conosce le tecniche, grazie ai congressi può capire ed educarsi alle differenze, conoscere cosa ci sta davvero dietro ad un piatto. Grazie alle Soste e ai Cavalieri (associazioni di ristoratori di cui Massimo fa parte ndr) abbiamo coperto l’Italia di grandi ristoranti. La gente può muoversi e capire. Ma questo è avvenuto grazie al fatto che tra noi facciamo squadra, condividiamo degli obiettivi.”
Qual è il suo piatto della memoria?
“Sicuramente il tortellino. Ricordo quando, da bambino, mi nascondevo sotto il tavolo mentre mia nonna faceva la pasta. Ricordo il fascio di luce che tagliava la sfoglia lanciata per aria. Dalla trasparenza distinguevano la sfoglia da tagliatella da quella da tortellino. E poi il rubarli sulla tavola, da mangiare crudi. Quindi il mio piatto è il tortellino crudo.”
E la materia prima che ama di più?
“Sono troppe quelle a cui sono legato, però una c’è. Quella buona!”
Luigi Franchi
Pubblicato su Catering, rivista della ristorazione  e dei consumi fuori casa – Maggio 2011